Sinceramente, non è la prima volta che mi càpita di occuparmi di artisti poliedrici che legano, in contemporanea, l’uscita editorial-musicale di un progetto, ed ammetto che l’operazione nasconde sempre una certa attrazione. Infatti, “Torno per dirvi tutto”, oltre ad essere il titolo del libro del musicista, scrittore e regista Lory Muratti, è anche quello del suo nuovo album, che ingloba (parimenti) 8 capitoli che affrontano la tematica del suicidio, vista sotto la lente d’ingrandimento di un autore delicato, finissimo ma decisamente eclettico, capace di estrapolarne il significato più intimo e indecifrato.
Certo, non so quanto possa essere d’interesse un argomento, per certi aspetti tabù, cosi toccante, spiazzante e, nella maggior parte, irrisolto ed incomprensibile nel gesto estremo. Chi, invece (spero tanti), troverà interessante sviscerarne gli aspetti reconditi, potrà calarsi nel tappeto sonoro allestito da Muratti, che ha voluto darne risalto tentando un ensemble in modalità orchestra anche in assenza di essa e, tuttavia, riuscendo nell’intento, sovrapponendo soluzioni e suggestioni a go-go.
Infatti, l’ampia durata dei brani, conditi da excursus affascinanti, danno all’ascoltatore la pienezza di una fantasia sospesa tra presente e futuro, in un mèlange tra indie, pop-wave, ambient e cantautorato intellettivo.
Tra libro e disco, il Nostro ci conduce in luoghi come Vienna, Praga, Parigi, il lago di Bled, in cui il viaggio è inteso come imprescindibile compagno per alimentare ispirazioni e ricchezza d’anima: e questa ideologia Lory la condivide col feat. di Cristiano Godano (Marlene Kuntz) nella splendida “Invisibile”, che vuol dar risalto non solo alle persone ignorate e dimenticate sui marciapiedi, ma anche agli artisti in generale, che devono impegnarsi non poco per non passare inosservati.
Invece “Stanotte a Vienna” dipana un’atmosfera notturna e lucente con tante variabili: un via di mezzo tra Baustelle e Perturbazione, capito che roba forte? Chi, viceversa, predilige oscuri meandri riflessivi, potrà sfogliare la “Viola” o tendere verso “Il silenzio delle parole” (o, ancor meglio, nel “Notturno di una mente malinconica”), e sarà pienamente appagato.
Per scovare l’atto più stravagante, si può passare a “Un disegno con molta acqua dentro”, e si capirà la fervida capacità visionaria che incorpora Muratti nella sua (doppia) vena autoriale. In termini di immaginario ed esperienza, “Torno per dirvi tutto” (che sia libro o disco) dà l’esatta idea di come la sua narrazione renda chiara la ricchezza ispirativa man mano che il viaggio prende forma.
Di certo, far proprie entrambe le opere sarebbe l’ideale, con il protagonista (che non sveleremo…) in perenne lotta tra luci ed ombre. Ignorare libro e disco sarebbe invece, questo sì, un “suicidio” culturale. (Max Casali)
«Nei momenti difficili… sento il bisogno di ritornare lì. In quella camera dove tutto è rimasto classificato con amore, dove i titoli dei brani sulla copertina delle cassette sono battuti diligentemente a macchina, dove i momenti preziosi di quel passato restano custoditi. Il rifugio mentale che mi permette di non tradire mai la mia giovinezza». La scrive Max Casacci la prefazione al nuovo libro di Luca Ragagnin Autoritratto in Vinile edito Miraggi, con le foto di Alberto Ledda, che lo scrittore presenterà oggi alle 18.30 al Blah Blah in compagnia del leader dei Subsonica e di Flavio Ferri dei Delta V che si esibirà in alcuni brani tratti dal suo nuovo album Testimone di passaggio , i cui testi sono stati scritti in toto da Ragagnin.
In quella cameretta azzurra che ricorda Casacci lei ci è tornato. «È stata la mia cameretta di bambino e oggi sono tornato a frequentarla come uomo adulto. Era diventata la stanza dei gatti di mia mamma Giuseppina, che era professoressa di lettere e che è stata la persona che mi ha trasmesso la passione per i libri, mi insegnò a leggere che ero molto piccolo. Cinque anni fa, quando è mancata, ho sfidato qualunque legge della psicanalisi e sono tornato in questa casa e l’ho ripristinata esattamente com’era 30 anni prima. Per prima cosa ho fatto ridare quell’azzurro che i miei amici ricordano alle pareti della mia stanza. È esplosa: ci ho messo dentro 30 anni di musica e di libri. Di dischi ne avrò sui diecimila titoli, i libri stanno intorno ai seimila. Tanti li comprai al villaggetto di bancarelle sotto il tetto di lamiera in corso Siccardi che purtroppo non c’è più».
È la casa di Luca grande o di Luca piccolo? «Di Luca grande. Anche se non è facile ritornare nel luogo dove sei cresciuto. Negli ultimi anni ho scritto un grande romanzo, nel senso di dimensioni poderose, in cui c’è il tema dell’infanzia e della memoria, non è un memoir ma una storia composita che dovevo scrivere per andare altrove. Volevo chiudere i conti con quel ragazzino. Inizia negli anni 70 e finisce l’11 settembre. Uscirà il prossimo anno».
Cos’è invece «Autoritratto in vinile»? «Un libro occasionale. Sono piccole scritture nate in un periodo in cui, ogni giorno per sei mesi, pubblicavo su Facebook un disco e un libro affiancati da alcuni miei aneddoti personali, ben lontani dal voler essere una critica musicale o letteraria. Ne pubblicai 150. Non sono mai più stato e né mai sarò tanto attivo sui social. Per il libro ne abbiamo scelti 50».
Quali? «Con i ragazzi di Miraggi, che da qualche tempo è la mia casa editrice, siamo stati severi per eliminarne 100. Abbiamo scelto quelli dove entravo più come autore e meno legati al quotidiano. Non faccio il professorino della musica, ma c’è una sorta di proselitismo musicale un po’ nascosto: c’è molta musica anni 70».
C’è qualche brano del suo autoritratto che ama di più? «Il primo, che è su Ummagumma dei Pink Floyd, un disco che entrò nella mia vita di quattordicenne nel 1979. La prima volta lo ascoltai in cuffia, e non c’erano i volumi e continuavo ad alzare. C’era un tappeto sonoro bassissimo che poi erompeva con un urlo agghiacciante di Roger Waters. Io, che avevo il volume al massimo, feci un salto terrorizzato e versai il caffè ovunque».
Da dove si parte per scrivere il testo di una canzone? «È una questione di sartoria, bisogna mettersi al servizio completo dell’artista e della sua storia. Tutte le mie collaborazioni con vari musicisti sono nate in maniera spontanea. Nei prossimi mesi potrebbe cominciare un mio corso dedicato al song writing per i ragazzi che fanno trap. Per loro la parola è molto importante».
GIAGLIONE – La musica è l’altro grande amore di Luca Ragagnin. Il suo “Autoritratto in vinile” è una biografia vera e propria attraverso i vinili che l’hanno attraversata, e che a Giaglione diventa anche un reading musicale con dieci brani letti e suonati dal vivo. La lettura, affidata alla voce stessa dell’autore, si affianca alle trame sonore di Luca Tartaglia, noto bassista torinese, tra melodie, sovraincisioni create in tempo reale con solo basso e loop station.
Il libro “Autoritratto in vinile”, di Luca Ragagnin (Miraggi Edizioni, 2020). Prefazione di Max Casacci, fondatore e chitarrista dei Subsonica. 61 brani 61 dischi 61 artisti 61 copertine 61 racconti che attraversano generi e periodi musicali mixati a ricordi personali 61 episodi d’infanzia e di gioventù in un gioco di rimandi rigorosamente analogici e 33 scatti da collezione di Alberto Ledda
Sono più di 8000 i chilometri che dividono Seattle da Torino, eppure in queste pagine Domenico Mungo riesce nell’immane impresa di annullare questa enorme distanza fisica, unendo idealmente la capitale del grunge e il capoluogo piemontese sotto le insegne sanguinanti del punk e della lotta al sistema. La storia, si sa, la scrivono i vincitori, e allora l’autore di Il suono di Torino decide di dare voce ai Beautiful Losers che negli anni della lotta operaia riempiono di furore anarcoide le grigie vie della città della Fiat, sinistro Moloch che si staglia con la sua ombra su tutto il racconto. Anni di occupazioni e concerti clandestini, radio libere e band seminali (Franti, Fluxus, Negazione), ma soprattutto di epifanie improvvise capaci di cambiare intere esistenze; come l’incontro con la musica di un angelo tossico martoriato dalla fama, ansioso di trovare una via di fuga dal proprio violento male di vivere. Mungo in queste pagine cuce nella carne viva della storia italiana un patchwork pulsante di dolore e nostalgia, fatto di passioni irrefrenabili, rock’n’roll e militanza estrema.
Boris Vian, scrittore, paroliere, drammaturgo, poeta, trombettista e traduttore francese, morto a soli 39 anni nel 1959, non è mai stato particolarmente apprezzato in Italia – l’unica sua canzone relativamente nota è “Le deserteur”, tradotta in italiano da Giorgio Calabrese e interpretata fra gli altri da Ornella Vanoni e Ivano Fossati.
Grande estimatore di Vian è il cantautore e scrittore Giangilberto Monti, che ne ha tradotto e inciso le canzoni e l’ha portato in scena in due spettacoli teatrali.
Ora Monti racconta vita e opere di Vian in un libro fra il saggio e il romanzo, punteggiato di dialoghi verosimili, suddiviso in dieci capitoli ognuno dei quali è contraddistinto da una delle canzoni del francese.
È un lavoro informatissimo e appassionato, che tratteggia il ritratto dettagliato di un personaggio multiforme che meriterebbe di essere più conosciuto anche da noi.
«Musica solida», un colossal, si direbbe al cinema, sulla storia dei supporti fonografici da fine Ottocento ai giorni nostri. Ne è autore il torinese Vito Vita, giornalista e musicista leader della band Powerillusi. In quel “solida” c’è tutto l’amore per il vinile, per l’oggetto disco, a 78, 33 o 45 giri che sia, contrapposto alla bufera di musica liquida che non risparmia nessun angolo del mondo.
«L’idea mi venne dieci anni fa a Roma – racconta l’autore – durante un pranzo di lavoro in trattoria con la redazione del periodico “Musica Leggera”. Mi dissero che un tempo in quei locali si ritrovavano gli artisti della famosa RCA Records, indicandomi i punti della sala in cui De Gregori realizzò il primo provino di Rimmel e l’angolo in cui scriveva i pezzi Rino Gaetano». Ora l’ambiente è una trattoria, e solo gli specialisti sanno cosa accadeva lì dentro negli Anni ’70: «In Francia l’avrebbero trasformato in un museo, e così pure gli uffici della RCA, che ora sono un anonimo magazzino di scarpe. Qui non ne siamo capaci, così decisi di raccogliere la sfida: salvare la memoria della discografia italiana». Partendo anche da una suggestione personale: proprio “Rimmel” di Francesco De Gregori fu il primo disco che l’autore del libro acquistò a 11 anni rompendo il salvadanaio.
Non è materia da poco. Tagliando al massimo sulle illustrazioni l’oggi cinquantacinquenne studioso torinese è riuscito a stare nelle 400 pagine, fitte di notizie, interviste, ricostruzioni storiche. Con un’altra missione in cuore: rendere giustizia al ruolo della sua città in questa vicenda: «L’etichetta più famosa era la Cetra, ma intorno a essa si svilupparono altre vicende significative. Penso alla Emanuela Records, cui va il merito di aver fatto decollare i Brutos, con lo storico album Destinazione Luna, come pure alla Shirak Records di Jonny Betti, cui si deve un gioiello ingiustamente dimenticato della canzone d’autore italiana, il 33 giri di Carlo Credi». Si intitola “Chi è Carlo Credi”, e chi lo ha di solito se lo tiene stretto.
Regola che dovrebbe sempre valere per il vinile, additato da qualcuno come inquinante: «Certo, è pur sempre un derivato del petrolio. Ma per noi appassionati il problema dello smaltimento non si pone: non si buttano mai via i dischi. E non dimentichiamo che possono essere custodi del suono anche il giorno in cui venisse a mancare la corrente elettrica: bastano un cavo e un corno per sentore, girando a mano, la musica che comunque i solchi contengono. Il cd senza elettricità è morto».
Quella della discografia italiana è anche una storia industriale, e come tale viene trattata nel corposo tomo di Vita: «Torno alla RCA, un’azienda che dava lavoro a circa tremila dipendenti. E poi c’era tutto l’indotto, un fiorire di piccole aziende anche di dimensione artigianale che con l’avvento del monopolio delle multinazionali sono andate a rotoli. Una grande, lunga avventura iniziata dai rulli e passata dalla gomma-lacca per poi approdare al vinile che tutto conosciamo. E che è in ripresa, i dati sono inoppugnabili. Sta finendo l’era dei cd, è al top la musica digitale, ma come supporto fisico 33 e 45 giri sono alla riscossa. Rispetto a Stati Uniti e Inghilterra l’Italia è più lenta, ma sta a sua volta dando segnali importanti.
Ho letto con grande godimento le oltre 400 pagine di questo libro, scritto dal competentissimo Vito Vita, che amplia e completa il lavoro del rimpianto Mario De Luigi nel suo “Storia dell’industria fonografica in Italia” (recensito qui più di dieci anni fa https://www.rockol.it/recensioni-musicali/libri/537/mario-de-luigi-storia-dell-industria-fonografica-in-italia) avendo come sottotitolo “Storia dell’industria del vinile in Italia (interessante notare come non sia stata scelta la dizione “Industria discografica”: del resto ormai parlare di “dischi” non ha quasi più senso, e il destino di un’industria privata dell’oggetto che le ha dato il nome è inevitabilmente grigio se non nero).
Vita mette in fila, cronologicamente secondo la loro data di nascita, le mille (o quasi) aziende produttrici di dischi che sono nate, cresciute e morte in Italia a partire dalla fine dell’Ottocento. Il suo è un lavoro certosino e meritorio, non solo perché ci ricorda che ci sono stati momenti (creativamente ed economicamente) assai più gloriosi di quello che stiamo vivendo, ma anche perché riporta alla memoria i nomi delle persone che alla discografia italiana hanno dato lustro. A titolo del tutto personale, mi ha anche fatto ricordare tanta gente che credevo di aver dimenticato, e che invece era solo nascosta in qualche intreccio arrugginito dei miei neuroni cerebrali (Mela Bacchini! Giusta Spotti! Gianna Morello!).
Se questo libro ha un limite, è che spesso la massa enorme di informazioni che contiene lo riduce, inevitabilmente, a un mero elenco di nomi e di titoli – e non dubito che Vita avrebbe potuto scrivere il doppio delle pagine (ma chi gliele avrebbe pubblicate?) arricchendolo ulteriormente di informazioni e riflessioni. Ecco, magari le tre interviste conclusive sono pleonastiche, ma le scelte autoriali vanno comprese e accettate.
Tuttavia, “Musica solida” – bel titolo, in contrapposizione alla fastidiosissima definizione di “musica liquida” – ha i pregi del libro storico, e sono certo che Mario De Luigi l’avrebbe apprezzato come indubitabilmente merita.
MUSICA SOLIDA. STORIA DELL’INDUSTRIA DEL VINILE IN ITALIA
L’industria discografica italiana nasce tra il 1899 e il 1901 a Milano e a Napoli, fiorisce per tutto il Novecento riempiendo di milioni di copie di pesanti 78 giri le case degli italiani, esplode negli anni 60 e 70 con i 45 giri e gli Lp e inizia un inesorabile declino negli anni 80, soppiantata dalla musica liquida. In 120 anni di storia, ci sono meno di dieci libri che possono concorrere a storicizzare il supporto fonografico, e sono tutti incompleti e parziali.
Oggi, ed è il caso di sottolineare finalmente, esce il testo di riferimento: Musica solida. Storia dell’industria del vinile in Italia (408 pagg., Miraggi Edizioni, 23 euro), di cui è autore una nostra vecchia conoscenza, Vito Vita. Nei nostri oscuri anni, in cui oltre alla musica si è liquefatta la memoria storica, si mandano al macero gli archivi, non si leggono più i giornali e i libri, la scrittura e la lingua parlata si sono impoverite come mai, c’è ancora qualcuno che raccoglie le informazioni con il metodo classico dello storiografo. Vito Vita ha concepito questo libro durante una cena nel 2009, nel ristorante Terra, sulla via Nomentana a Roma, sorto negli ex locali del Cenacolo della RCA Italiana. complici della sua visione, il sottoscritto, Michele Neri, Maurizio Becker e Luciano Ceri, praticamente il nucleo fondatore della nostra rivista «Vinile» e della mitica «Musica Leggera». In dieci anni di lavoro, Vito Vita ha fatto centinaia d’interviste, ha compulsato migliaia e migliaia di pagine di periodici e quotidiani nelle biblioteche, ha ricostruito, con la certosina e ossessiva precisione che ben conosciamo, gli avvenimenti, le circostanze, le date, e la storia delle persone che hanno vissuto l’avventura di cento anni di discografia italiana. Un libro di Storia che gratifica i sopravvissuti che ne hanno condivisa una parte, un libro di riferimento che traccia la strada per la ricerca che, ci auguriamo, fiorisca nei prossimi anni.
Il corredo di note a piè di pagina percorre la bibliografia e le fonti, l’indice dei nomi è presente ed efficace, la cura editoriale del volume è ineccepibile, e son tutte rarità nella cialtronesca editoria attuale. La prefazione di Giangilberto Monti non saltatela perché è divertente. Questo libro dobbiamo acquistarlo tutti!
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