Il cimitero delle macchine (Torino, Miraggi, 2024, euro 26) è il secondo romanzo di Sergio La Chiusa, anche se, come precisa l’autore nella nota alla fine del libro, la sua ideazione precede I Pellicani risalendo al biennio 2003-05 e avendo poi vissuto una serie di rielaborazioni e riscritture anche in tempi più recenti. In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine; ora al lettore di La Chiusa un paesaggio del genere non giungerà affatto sorprendente, ma se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza. Ovviamente, come sa ogni milanese salvo quelli onorari, anche a Milano ci sono posti del genere, del resto l’immaginario futurista della città nasce da quelle tre piazze e quattro vie che oggi ricorrono in tutti gli spot pubblicitari, ma il tema della rappresentazione di La Chiusa non è di ordine geografico né sociale, perlomeno nel senso ristretto e immediato che tale aggettivo prende nella narrativa realistica di denuncia. In La Chiusa la rovina è la concretizzazione spaziale della natura della civiltà contemporanea e della dimensione psichica dei suoi abitanti. Se “La visita delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce talvolta a ritrovare” (Marc Augé), le rovine di La Chiusa in realtà non hanno alcuna funzione di recupero e di rievocazione e non sono nemmeno macerie che non hanno fatto in tempo a diventare rovine, al contrario esse sono perfettamente funzionanti, come dimostra il fatto che sono fittamente popolate. Si direbbe quasi che sono state progettate per essere fatiscenti come i carceri di Piranesi, infatti esse sono regolarmente previste dal funzionamento standard del potere e questo ne rivela la natura allegorica della situazione storica contemporanea, in cui sia le città sia i rapporti tra gli uomini sono malfunzionanti e tendenti al degrado perché sono state progettati e promossi per una finalità diversa da quella di un’armoniosa vita collettiva.
In questo spazio devastato si muove Ulisse Orsini. Egli è un disoccupato, disadattato che appartiene alla stirpe degli Ulissidi, ma più che al capostipite deve qualcosa al fondatore del ramo moderno della famiglia, quel Leopold Bloom di Dublino, con il quale se non altro condivide una qualche propensione a scorgere, nella veglia e nel sonno, epifanie della bellezza in questa realtà desolata. Ulisse incarna il tipo del fuggiasco, è un fuggiasco assoluto per così dire: dapprima resosi conto di essere ormai un emarginato fugge dalle ambigue istituzioni che il mondo predispone per coloro che non ce la fanno oppure è costretto a fuggire da casa sua e da altri luoghi; quando arriva nel cimitero delle macchine dove trova altri emarginati come lui, non molla mai la valigia e si pensa provvisorio, anche perché scopre a sue spese la verità del vecchio detto di Trotzky che è più facile morire in nome dei proletari, che qui potremmo parafrasare con reietti o appunto emarginati, che viverci assieme. In Ulisse è talmente connaturata la tendenza alla fuga che perfino quando partecipa a una dimostrazione per riformare il mondo, superando per una volta le proprie inclinazioni individualiste, viene messo in fuga dalle forze dell’ordine costituito. E questa tendenza spiega anche il finale, che per comprensibili motivi non posso anticipare qui.
Al protagonista capita di assistere nella discarica ai disperati tentativi di un bassotto di avere un coito con una cagna maremmana, destinato a fallire comicamente nel suo intento per le ostensibili differenze di taglia. In qualche modo in questa immagine vi è condensato lo scarto tra aspirazioni a una vita degna di essere vissuta e opportunità di viverla per davvero. Eppure questa immagine solleva lo spirito di Ulisse perché la vitalità del suo scopo sembra assegnare un senso a un mondo in cui anche il senso appartiene a pieno titolo alle rovine. Analogamente l’entrata di Cristo a Milano non è destinata a riprendere il racconto evangelico, come invece l’entrata a Bruxelles nel dipinto di Ensor che La Chiusa cita esplicitamente nel testo. Qui Cristo è accolto dalle autorità cittadine, trattato come celebrità per il quarto d’ora di sua spettanza e poi rapidamente dimenticato senza bisogno di alcun tradimento o voltafaccia della folla. Il racconto evangelico perde di senso nella società dello spettacolo.
Il romanzo è narrato in terza persona con cambi di focalizzazione e addirittura in alcuni passi con un cambio verso la prima persona plurale, quasi che il narratore onnisciente ci suggerisse la sua identificazione con il protagonista. Inoltre sono presenti inserti metanarrativi in cui il narratore rompe deliberatamente la finzione del racconto apostrofando il lettore. Tutte queste sono procedure, come nei classici del modernismo, volte a creare un rapporto di straniamento. Il problema non è qui fare una storia ben narrata che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente, ma di offrire squarci e agnizioni sul presente, quasi dei flash che illuminano frammenti di paesaggio nella notte e questo spiegherebbe perché in questo autore è presente un forte immaginario pittorico non solo in termini di citazione colta, ma di dialogo con alcuni grandi della nostra tradizione (il già menzionato Ensor, Botticelli, il prediletto da La Chiusa Brughel ecc.). Verrebbe da dire che nel romanzo ciò che conta non è il soggetto, ma lo sguardo doloroso che Ulisse grazie al chiaroscuro della scrittura di La Chiusa volge sulle persone e sugli oggetti senza mai distogliere gli occhi. Tutto questo iscrive Il cimitero delle macchine nel campo della letteratura inattuale, eppure quell’inattualità è la verità della letteratura ossia la capacità di gettare uno sguardo sul presente libero da quelle ipoteche culturali e psicologiche che la società getta su se stessa nella forma dell’ideologia se non della menzogna. E questo libro è oltremodo vero.
Ada Sirente segnalata col suo Duramatertra le «quattro autrici per l’estate: dal ‘taccuino’ alle voci degli expat, ecco i libri da portare con sé»:
Vanta natali abruzzesi anche Ada Sirente (il nome è d’arte), autrice di un libro straordinario come Dura mater (Miraggi Edizioni), sperimentale e intriso di un post-stream of consciousness, palpitante di preziosa poesia. Mariella è nel letto numero 5 della terapia intensiva. Una cicatrice demarca il confine tra un limbo di visioni e la realtà che le sfugge. È in coma farmacologico, operata al cervello. Dubita di sé, non riesce a ricostruire gli eventi. Una cicatrice separa anche i suoi due luoghi: Roma, un fondale di carta, e l’Abruzzo, la sua terra antropologica. Miscelando un affilato argot medico e corruschi tratti lirici, alla fine la strada da percorrere è una sola: quella del capetiempedei contadini abruzzesi. Il ripartire sempre daccapo insieme al volgere delle stagioni, sublimando il dolore delle sciagure: quelle individuali, quelle collettive di terremoti e frane.
I libri food da leggere sotto l’ombrellone per gli appassionati di cibo e vino
Ricettari, trattati di storia, perfino libri gialli in cui i cuochi più famosi d’Italia vengono uccisi da un killer misterioso: ecco tutti i libri che gli appassionati di enogastronomia dovrebbero portare con sé in vacanza.
In ogni valigia che si rispetti c’è sempre posto per un paio di libri da leggere sotto l’ombrellone. E perché no, quei libri possono essere un bel momento di approfondimento sul cibo e sul vino, visto che l’estate è sempre un buon momento per dedicarsi a ciò che ci appassiona. Se quel qualcosa è il mondo dell’enogastronomia, ecco ad esempio che un viaggio si trasforma facilmente in un appuntamento con la scoperta di nuovi piatti, nuovi sapori e nuovi ingredienti.
Ma anche quando le ferie sono una più rilassante vacanza sotto l’ombrellone, ecco che il cibo e il vino possono tornare a essere protagonisti, e non solo nel pranzo al sacco da portare con sé sulla spiaggia.
I libri di cibo e di vino da leggere, in quest’estate 2024, sono tanti, e molto interessanti. Un’occasione utile per imparare qualcosa di più su quello che abbiamo nei nostri piatti: qualche ricetta sfiziosa, qualche tecnica particolarmente difficile, qualche storia appassionante e perfino qualche soluzione per i problemi delle nuove generazioni.
C’è tutto questo nelle letture estive a tema food & beverage che vi suggeriamo per il 2024: una selezione di libri molto diversi tra loro per scoprire qualcosa di nuovo e interessante sul magico mondo dell’enogastronomia.
Smarrirsi infinite volte in un albergo, ma per quale motivo? “Gli amanti perduti nel transfinito” sembrano suggerircene più di uno
Perdersi…
Che pensate di questo verbo, cari lettori? Ha un’accezione positiva o negativa?
«Dipende», direte voi…
«Mi sono perso di notte in una zona poco abitata. Mi sono perso nel nulla».
Oppure… «Lei si era persa nei suoi occhi». O ancora «Entrambi si sono persi nel centro di Parigi al tramonto. Che giornata fantastica!».
Evidentemente il concetto di perdersi ha una valenza che risente del “dove” e del “quando”. Ma cosa succederebbe se tale smarrimento avvenisse infinite volte in un luogo infinito?
Succede che la Miraggi Edizioni ha avuto il coraggio di credere in un testo che davvero risulta appartenere alla nicchia della nicchia. Questo fa del titolo di Piergianni Curti un libro dignitosamente emblematico dell’editoria indipendente.
In poco più di centoventi pagine l’autore dà vita ad una storia che non ha un inizio ed una fine, nel senso canonico dell’espressione, ma potremmo dire invece che si tratta di una finestra sull’infinito.
La trama, di base, non esiste: una coppia, Maria e Giuseppe, si reca in un albergo dove si rivolge al concierge per prendere una camera. Fine. Non sembra molto interessante, vero?
La chiave del libro, invece, è proprio nell’entità di questi 4 elementi. Chi è Maria e chi è Giuseppe? Sono quei famosi Maria e Giuseppe della Storia? Quel concierge è un portiere d’albergo qualunque? Ma soprattutto questo Hotel Hilbert, che prende il nome da un matematico tedesco di metà ottocento inizio novecento, che tipo di struttura è? Una sorta di residence con infinite stanze per infiniti clienti può davvero esistere nel mondo? Magari non esiste nel mondo finito, ma nell’infinito funziona egregiamente.
Come potete vedere tante le domande, perché tanti sono gli spunti di riflessione che lo scrittore, fisico e matematico, ha voluto sottoporre alla nostra attenzione.
L’idea di base è che l’hotel sia ubicato nel transfinito: un concetto introdotto dal matematico Cantor per esprimere la molteplicità degli insiemi infiniti. Di fatto lo studioso ha concepito e spiegato DIVERSI GRADI DI INFINITO nelle sue teorie.
Una volta chiarito che il luogo in cui si incontrano questi tre personaggi è collocato in un posto che non ha un limite, tutta la “vicenda”, estremamente semplice nella sua essenza, avrà conseguentemente delle sfaccettature “infinite”. Quella Maria, una influencer della castità, e quel Giuseppe, attivo nel settore della lavorazione di materiali fra i quali il legno, hanno problemi di coppia che risentono anche dell’ingombrante presenza del padre di lei. Entrambi finiscono per esternare le proprie difficoltà e il Signor F. dell’accoglienza tenterà di sfruttare la situazione per sedurre l’unica donna protagonista. Anche se… Maria è davvero l’unica protagonista de Gli amanti perduti nel transfinito? La riposta è “no”, perché esistendo infiniti insiemi, infiniti numeri ed infinite situazioni, ci saranno altre Marie che nello stesso momento e nello stesso albergo staranno subendo le stesse avances da altri signor F. di fronte ad altrettanti Giuseppe contrariati e scorbutici.
Le riflessioni, le ipotesi e le teorie ed i drammi che si consumano all’interno di queste declinazioni di persone costituiscono, di fatto, il libro di Piergianni Curti.
Il testo è un continuo susseguirsi di stimoli che vanno al di là della trama, dell’autore e dello stesso lettore. Per quanto possa sembrare assurdo, paradossale ed inattuabile, il concetto di transfinito non è poi così lontano nella vita di noi tutti.
Intendiamoci in molti si sono espressi sulla concezione dell’infinito con annessi e connessi. La matematica è il campo più adatto per affrontare questo tipo di elaborazioni. Niente è più concreto e, allo stesso tempo, più astratto dei numeri. L’autore cita Cantor, Hilbert, Gödel, ma nomina anche Sant’Agostino, Nietzsche e Borges.
Il suo testo narra ancora della crisi di coppia che si confronta con il sesso, della crisi dei fondamenti della matematica, ma racconta anche che nell’infinito esiste una ripetitività che di fatto non potrà mai mettere la parola fine a qualcosa. Infiniti noi si troveranno a svolgere le nostre azioni infinite volte, magari cambiando qualcosa oppure senza cambiare nulla.
Gli amanti nel transfinito non è certamente il primo scritto che affronta tali tematiche, ma è certamente uno dei pochi che imposta tutta questa complessa impalcatura composita a livello di intrattenimento.
Nel titolo della collana “scafiblù”, della Miraggi, c’è un occhio critico che attrae, perché da un lato è funzionale alla narrazione, ma dall’altro lato è la narrazione stessa. Ritroviamo così religione, psicologia, delusione e speranza, inganni, gelosia, passione, filosofia, drammi irrisolti e addirittura un colpo di scena finale, collegato all’ingresso di un (altro?) personaggio storico.
Persino imprese colossali come la Marvel o la Shūeisha assieme alla Toei Animation (quelle di Dragonball per intenderci) si sono servite degli sviluppi di concezioni simili alle teorie utilizzate da Piergianni Curti.
Il concetto del multiverso, tanto sfruttato dai comics e dai cinecomics, o la visone delle altre dimensioni, nei manga e negli anime giapponesi più recenti, è così diverso dal punto di partenza dell’autore?
Condensare tante tematiche in poche pagine non era facile. Orchestrare ogni aspetto in maniera tale che il testo potesse essere fruibile per tutti, era ancora più difficile. Credere in un titolo del genere, in conclusione, è davvero raro.
Complimenti all’autore, alla Miraggi ed a tutte le Miraggi Edizioni che amano perdersi nel transfinito e non solo.
Valeria Carletti è innanzitutto una stalker di professione e una groupie accanitissima. Cerca sempre di infilarsi nei backstage dei concerti e, perché no, se possibile anche nei camerini, così da scambiare quattro chiacchiere con i suoi artisti preferiti. C’è però un piccolo dettaglio da aggiungere: Valeria è in carrozzella, ma sogna comunque di fare uno stage diving. Ma non importa se ciò (per ora) è irrealizzabile, perché la musica la fa sentire viva, e molti cantanti ormai la conoscono bene e sono diventati veri e propri amici (Zen Circus, Dario Brunori, Samuele Bersani, Max Gazzé, eccetera eccetera). Poi con il suo cane Luna… Anzi, diciamolo bene: la sua cana… Ecco, con la sua cana Luna, si aggira sempre per le vie di Torino con le cuffie nelle orecchie. Ogni canzone le spalanca mondi ed emozioni fortissime, che la fanno vibrare di quella vita che a volte sembra sfuggirle. Perché sì, la sua non è soltanto una storia di entusiasmi e di “andràtuttobene”! Tutte cazzate, quelle. Ci sono anche i momenti bui, in continuazione. Alcuni amici le dicono che lei ascolta troppe canzoni tristi, ma non importa: si sa che le canzoni tristi sono anche la cosa più bella del mondo. E poi Valeria ha già organizzato in un’occasione un festival (naturalmente incentrato sulla musica) avente l’obiettivo di discutere, e se possibile abbattere, le barriere architettoniche: l’Oltranza Festival. Ora sta già pensando a una seconda edizione. E per via di tutto questo attivismo, di conseguenza, non riesce proprio a sopportare gli odierni governanti, del tutto indifferenti alle fatiche degli ultimi ma con la bocca sempre impastata di cristianesimo. Valeria, in effetti, talvolta pensa: “Chissà come si vergognerà quel crocifisso che tengono in mano”…
Cinquanta canzoni. Cinquanta canzoni che, se si ha tempo e voglia (trovateli), si possono anche ascoltare su internet grazie a QR Code presenti all’inizio di ogni capitoletto. Cinquanta canzoni che ci introducono alla vita, alle esperienze e agli innumerevoli concerti a cui Valeria Carletti ha preso parte. E va specificato: cinquanta canzoni di artisti per lo più indipendenti, tanto si sa: ormai (concordo con Valeria) la buona musica si trova soprattutto da quelle parti. Questo è dunque un diario, ma un diario di un genere molto sghembo e simpatico. Stracolmo appunto di musica (sono felicissimo di aver dovuto recensire io questo libro, dato che con gli Zen e Brunori ci sono cresciuto, e quindi…) e stracolmo di emozioni. Non tutte positive, sia chiaro, ma non stiamo qui a trattare Valeria come una poverina, né al contrario come una donna di forza eccezionale o altre scemenze del genere. Valeria è una donna, punto. Anzi no: devo aggiungere una cosa (del resto sarei qui proprio per questo). Valeria è una scrittrice. Questo infatti è un libro magnificamente scritto, struggente in molti punti, e capace di trasmettere un dolore intenso come solo certi libri sanno fare. Ci pone insomma dinanzi alle difficoltà della vita (di lei, ma anche nostra) con grande sincerità. In conclusione, davvero, qui c’è bellezza.
Qui l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/oltranza-disavventure-di-una-vecchia-groupie
Il clima è cupo, nella Francia appena liberata dalle forze alleate. Perché sono brucianti le scorie, non solo materiali, del conflitto ancora in corso. Il momento di fare i conti con quello che è accaduto è, infatti, arrivato. E tanti francesi non hanno la coscienza limpida. Così, in un campo di prigionia controllato dagli Alleati, esattamente nel 1944, si raduna un’umanità eterogenea di diseredati, relitti, prigionieri politici. Costretti ad una coesistenza forzata, in cui il caso può fare incrociare destini inconciliabili. Accade così che si incontrano due vecchi compagni d’infanzia, approdati per vie traverse alla medesima scelta politica. Il primo, François, ex comunista poi diventato collaborazionista dei nazisti al tempo della repubblica di Vichy; il secondo, Antoine, vecchio vicino di casa e fascista convinto. L’incontro innesca nel primo un flusso inarrestabile di ricordi, partendo proprio dall’infanzia, vissuta in un piccolo borgo francese. Qui matura le prime esperienze, passa dal cattolicesimo al comunismo, vive la lacerante condizione di orfano di guerra. E poi arriva Vichy…
Francesca Veltri dipana la trama del racconto lungo un arco spazio-temporale ampio. Lo fa concedendo lo spazio maggiore alla rievocazione memorialistica, condotta in prima persona dal protagonista-narratore. Lo sfondo è quello degli anni tumultuosi che vanno dal primo conflitto mondiale, vissuto in Francia in un’atmosfera di acceso patriottismo, fino all’occupazione nazista e all’arrivo degli alleati. Ciò che più conta è che il protagonista vive il suo processo di formazione in maniera intensa, facendo comunque delle scelte controcorrente. Così è quando abbraccia il verbo pacifista negli anni della Grande Guerra, e così è quando diventa comunista, prima, filonazista dopo. E perciò si stacca, talvolta in modo sinistro, dalla massa grigia degli ignavi, che preferiscono defilarsi. Rinunciare, cioè, a partecipare ai grandi rivolgimenti storici, restando così nell’ombra. Una scelta, questa, di viltà, che il protagonista rifiuta recisamente. La sua fisionomia caratteriale risulta quindi minutamente analizzata, ma sempre inerendola nel flusso degli eventi del suo tempo.
Un libro che scava, in maniera dissimulata, nella profondità della relazioni personali, della quotidianità e dell’autrice stessa. La recensione di Gennaro Ricolo
“
Chi è la Lorenza che scrive un diario in cui annota le vicende martoriate e a volte, loro malgrado, irresistibili dei pazienti di un ospedale psichiatrico di cui è “consulente filosofico”? È l’autrice stessa? È un caso di omonimia? Un alter ego, un Doppelgänger, ovvero un sosia, un viandante ubiquo? Luca Raganin
Così scrive Luca Raganin nella bella quarta di copertina del Buon auspicio, un romanzo non-romanzo, molto particolare, appena uscito per Miraggi edizioni.
Lorenza è l’autrice, è la protagonista, ed è Lorenzo, amico, desiderio e doppio. E racconta, con parole sue «in presa diretta, come in una stenografia del reale», e in più di 500 pagine, pezzi della sua vita, con tanto di nomi dei protagonisti, semplici conoscenti, amici, personaggi noti (gustoso e poetico il racconto di un week end con Houellebecq), senza filtri, in un modo così diretto da risultare urtante, inappropriato, e per questo affascinante.
Si sente spesso parlare di romanzo-mondo, quando un libro vuole ricreare da zero un intero immaginario. Il buon auspicio di Lorenza Ronzano non ha questa pretesa, ma è fatto di riflessi incoerenti, un collage apparentemente casuale di eco sovrapposte, in cui ricostruire qualcosa di unitario più che impossibile risulta inutile, e infine non necessario. Se ci siamo assuefatti alle storie intime, e “ombelicale” è un giudizio negativo, qui partiamo invece da un dato viscerale, doloroso ed entusiasta, capace di toccare il nostro stesso stare al mondo nella sua essenza più profonda.
Antonio Moresco, estimatore di Lorenza Ronzano e presente più volte nel testo, ne parla così, dopo aver tentato a lungo di farlo pubblicare:
“
Si lamentano sempre che non escono libri spettinati, e poi quando ce n’è uno spettinato e pieno di spigoli non lo vogliono!
Antonio Moresco
E ancora, in quarta di copertina:
«È strano, in questi anni in cui la grande editoria sembra fare a gara nel pubblicare libri scritti da donne (purché stiano dentro una certa cornice edificante e un certo spirito culturale del tempo), quelle che faticano a trovare accoglienza sono proprio le voci femminili più originali, più forti, più scomode, più irriducibili. Quella di Lorenza Ronzano è una di queste.»
Da quello stesso racconto di pancia e cervello si originano poi delle esplosioni di umanità e riflessione più ampia, a contorno per esempio dei racconti dei pazienti psichiatrici che Lorenza raccoglie, e che incontra per lavoro. Malati lo sono poi davvero? O sono “solo” stati sfortunati? Hanno sofferto nella vita e vengono per comodità sociale chiamati malati e sedati con terapie?
«Sto qui in ospedale a chiacchierare, mi metto a disposizione dei cosiddetti pazienti psichiatrici, loro mi chiamano Dottoressa, ma io sono il loro grande orecchio, la loro cassa di risonanza. Voglio sdoganare la follia, per questo ho deciso di lavorare contro una visione del mondo proprio nel luogo in cui questa visione viene creata. Sono l’anticorpo del sistema in vigore.»
Lorenza Ronzano sembra applicare lo stesso metodo a ogni cosa: cercare di forzare la superficie del mondo visibile, del consueto, dei rapporti interpersonali, con un racconto apparentemente piano, con uno stile fatto di «gergo quotidiano. Talvolta più sorvegliato, nella maggior parte dei casi immediato, concreto, persino grezzo», e lo fa indifferentemente che si tratti di raccontare sogni (assurdi come tutti i sogni, spesso esilaranti), desideri di amplessi sessuali, visite al padre in casa di cura, serate più o meno mondane nella sua città, Alessandria.
Impigliato e in balia del flusso del racconto, il lettore deve subirne i colpi emotivi per essere ricompensato – come accade nella vita – dall’intenso premio di vedere smuovere leve dello spirito che non sapeva di avere (più). Uno spirito che ha un corpo, che è in un corpo.
E qual è allora il “buon auspicio” citato nel titolo? Lo ritroviamo in un passo, riportato sul retro del volume, esemplificatico e come un marchio a definire l’identità di questo libro così inaspettato:
«Oppure, anziché portarlo in Svizzera per praticare l’eutanasia, potrei lasciarlo in un campo. Mi balugina per un attimo davanti agli occhi, come in un delirio visivo, l’immagine di mio padre sulla sedia a rotelle abbandonato in fondo a un campo. Quest’immagine mi è sempre sembrata di buon auspicio.»
Lettera, come tassello di un alfabeto, o lettera come un veicolo per comunicare nei tempi prima delle mail, degli sms, dei whatsapp, dei tweet, dei post. C’è una bella storia su una lettera speciale, il fondamento del movimento della scienza per la pace. Si tratta della lettera che AlbertEinstein spedì al filosofo Bertrand Russell, accettando di firmare il manifesto Einstein-Russell per la messa al bando delle armi nucleari. La storia racconta che Russell scrisse il manifesto e lo inviò ad Einstein perché lo firmasse. In attesa della risposta, in aereo da Roma a Parigi, apprese la notizia della morte del grande scienziato, un lutto mondiale, che per lui significava anche aver perso il cofirmatario di un appello di vitale importanza per il pianeta. All’arrivo in albergo lo aspettava però un plico da Londra, che conteneva la lettera firmata e inviata da Einstein prima di morire.
L’ultima lettera di Einstein per la storia è rimasta quella, ma per la letteratura è diventata un espediente, il nucleo di un romanzo sulla salvaguardia della specie umana, non solo dalla potenziale distruzione per via di un conflitto nucleare globale. Il romanzo si intitola appunto“L’ultima lettera di Einstein” e l’autrice è Daniela Cicchetta, per la casa editrice Miraggi Edizioni. L’ho conosciuta in presenza a Plpl2022, o meglio l’ho riconosciuta come una persona già incontrata chissà dove e chissà quando. L’autrice, in quell’occasione, mi ha regalato la parola sincronicità, che ha a che fare con il tema profondo del suo libro.
La parola significa letteralmente un evento fortunato, una scoperta fortuita, che nasce dalla coincidenza di fattori solo apparentemente casuali. E nel libro di Daniela Cicchetta, la sincronicità la troviamo in un mondo del futuro, nel quale, il ritrovamento di manoscritti originali di Albert Einstein, conservati segretamente e tramandati per generazioni fino all’anno 2190, potrebbe preludere alla realizzazione di una tecnologia capace di viaggiare nel passato e salvare il pianeta terra dalla sua autodistruzione.
“Una settimana prima della morte di Einstein”, scrive Daniela Cicchetta dando voce allo scienziato del futuro Marcel, “Russell gli aveva mandato la bozza di una dichiarazione a favore della collaborazione tra le nazioni per il disarmo nucleare che, senza il suo appoggio, non avrebbe di certo avuto la giusta risonanza. Mentre si recava a Parigi per incontrarlo seppe che era appena morto. Arrivato in albergo, però, trovò una lettera del fisico, con la quale aderiva all’iniziativa: ti rendi conto? L’ultimo pensiero di Einstein, l’ultimo suo atto pubblico è stato quello! Ovviamente i media gli diedero grande risonanza, la dichiarazione divenne nota come “Il manifesto di Einstein-Russell” e fu firmata anche da una decina di prima Nobel”.
Nel romanzo l’autrice riporta l’incipit del famoso manifesto: “Nella tragica situazione che l’umanità si trova ad affrontare, riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi per valutare i pericoli sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito del documento che segue. Non parliamo, in questa occasione, come appartenenti a questa o a quella nazione, continente o credo, bensì come esseri umani, membri del genere umano, la cui stessa sopravvivenza è ora in pericolo. Il mondo è pieno di conflitti, e su tutti i conflitti domina la titanica lotta tra comunismo e anticomunismo. Chiunque sia dotato di una coscienza politica avrà maturato una posizione a riguardo. Tuttavia noi vi chiediamo, se vi riesce, di mettere da parte le vostre opinioni e di ragionare semplicemente in quanto membri di una specie biologica la cui evoluzione è stata sorprendente e la cui scomparsa nessuno di noi può desiderare. Tenteremo di non utilizzare parole che facciano appello soltanto a una categoria di persone e non ad altre. Gli uomini sono tutti in pericolo, e solo se tale pericolo viene compreso vi è speranza che, tutti insieme, lo si possa scongiurare. Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. (…)” La trama potrebbe essere questa, se la storia avesse un andamento lineare. Ma l’autrice non intendeva raccontare di un mondo distopico, seppure in un certo senso lo fa, né scrivere un romanzo storico incentrato sull’impegno di Einstein per la pace e sulle sue posizioni spirituali nell’età della saggezza, per quanto anche di questo il romanzo narri, piuttosto l’autrice spiraleggia con la sua penna tra passato, presente e futuro, roteando attorno a un asse incentrato tra le rovine di Stonehenge.
Il personaggio perno della storia è una donna, Dunia, che tra quelle rovine capisce il senso delle visioni che l’hanno accompagnata fin da quando era bambina. Le visioni sono le vite di altre due donne, che lei accetta conoscendole e grazie a loro imparando a conoscere se stessa, fino alla sintesi estrema, che è poi il messaggio che io ho colto dal romanzo: sviluppare la capacità di ascolto al femminile è la via per arrivare a sentire la vita pulsare in ogni elemento del pianeta, uno stato talmente illuminato che lo si raggiunge solo attraverso molte vite votate alla ricerca di armonia con la vita stessa.
Einstein fu un fervente pacifista, a causa della comprensione profonda degli sviluppi tecnologici ai quali le sue scoperte rivoluzionarie avevano portato. E alla fine della sua vita dedicò quasi tutte le sue energie a tramandare l’idea di un pensiero scientifico capace di abbracciare anche la sfera spirituale come ambito di ricerca. Pur non sostenendo pratiche religiose, le sue idee aprivano la strada all’immaginario di una concezione del tempo che non avrà mai più una direzione prestabilita. E ancora oggi l’idea della freccia del tempo è in dubbio, così come l’idea che il tempo esista o che non sia piuttosto una nostra creazione mentale. L’espediente di un’ultima lettera, in cui Einstein abbia affrontato questioni sul tempo e sui viaggi astrali, questioni al confine tra la razionalità e l’emotività o il sentire del cuore, è secondo la mia lettura, il vero perno di questo romanzo. Attorno a questo ruotano i temi attuali della crisi della nostra specie, di un pianeta in bilico, ma capace di sopravviverci, e delle scelte che ognuno di noi può fare, per mettersi in ascolto della vita.
“«La senti l’erba crescere?» E io un giorno l’ho sentita”, racconta la protagonista del romanzo Dunia. “Ero sdraiata sul prato della casa in campagna dove giocavo da bambina, e mentre guardavo gli uccelli rincorrersi in uno spettacolo inconsapevole, la testa sprofondata nel tappeto verde, mi sono svegliata alla Natura. (…) Da quel momento nulla è stato più invisibile”. È questa la via indicata nel lontano passato dai druidi, per i quali “la Natura aveva un significato mistico”, continua, “intesa come manifestazione del mistero che ha dato vita all’uomo e all’universo. Non avevano bisogno di dei o religioni. Una ecospiritualità, ci pensi. Vivere in armonia con l’ambiente e tutte le forme della vita”.
Ma quando sarà possibile un cambiamento del genere? Viene da chiedersi leggendo parole che lo scienziato del Secolo Novecento aveva espresso già nel famoso manifesto. La sola risposta è adesso. Perché non c’è più tempo per esitare. Non c’è nella finzione letteraria, ma non c’è nel presente che ci è dato di vivere. “Non senti questo dolore del mondo?” riuona l’appello della protagonista al lettore. “Dobbiamo fare qualcosa, ma c’è sempre qualcosa che distrae, che non conviene e così si rimanda, in attesa che qualcun altro lo faccia al posto nostro. Come possiamo credere che il solo dichiararlo basti per attuare un cambiamento? (…) Il nostro futuro è oggi, il nostro passato è oggi. E oggi non c’è tempo ma è anche l’unico tempo per cambiare le cose”.
Si pensa che gli editori stiano talmente tanto tempo in mezzo ai libri, alle novità, ai libri che non hanno avuto fortuna, che quando chiudono la porta di casa, l’ultima cosa che fanno sia guardare la libreria, perché sentono ancora la polvere sulle mani, anche se sono lavate con fin troppa cura. Credo sia l’abitudine. Quindi un editore divenuto scrittore per un’altra casa editrice sembrerebbe essere una “goliardata”.
Invece Patrizio Zurru, editore di Arkadia, diventa scrittore e centra l’obiettivo: è bravo non solo a scrivere, ma anche a dispensare emozioni. La sua opera Endecascivoli (Miraggi edizioni, 2021) comprende ben sessantacinque racconti. Tra un racconto e l’altro viene lasciato mezzo foglio in bianco per il lettore, per dipingere o scrivere i vocaboli che hanno emozionato lo scrittore e dunque anche noi lettori.
C’è una grande purezza in questi racconti, di un adulto che guarda al passato con emozione, certo, ma anche con il sollievo di essere grande ora e qui. A fare l’editore nella sua terra. Poteva capitare, invece, che un bambino nato in Sardegna a metà degli anni Sessanta, dopo l’adolescenza andasse in miniera come gli altri uomini e padri di famiglia, oppure trasferirsi sul “continente” o addirittura all’estero per trovare opportunità lavorative.
I passaggi per una vita in cui non hai gli occhi rossi e dove respiri aria e non terra lo capiamo abbastanza presto, con la testimonianza fin dall’inizio di una giovinezza attraversata da viaggi, avventure in spiaggia e anche prima, con Patrizio più piccolo a giocare a pallone con urla della madre e delle sorelle maggiori a fare da sfondo, fino all’arrivo del padre che poteva anche picchiare i figli maschi con la cinghia. Ma poi bastava solo la voce paterna per trovare la quiete familiare, perché la terra nei polmoni era già uno scandalo tutti i santi giorni. Picchiare i figli sarebbe stata una resa, aver avuto proprio una giornataccia.
Nella collana Golem di Miraggi c’è sia narrativa che poesia e quindi Patrizio Zurru ci si inserisce di incanto, con questi brevi racconti poetici, dei magnifici “tableaux vivants“. Ricordi o epifanie? Tutta vita vissuta? Ma come ormai chi scrive lo dice fino alla noia la Letteratura è trascrizione di un evento che ha perso per strada l’oggettività, perché il ricordo scritto è mendace, pieno di buchi neri.
La letteratura è il tempio dell’impostore, che racconta quello che ha vissuto o non ha vissuto in forma nuova. Pensate a tutti i ricevimenti, le passeggiate e le parole dette in un salotto scritte da Proust ne La Recherche mentre lui, invece, scriveva a letto, pieno di malanni, senza vedere nessuno. L’eccezione che conferma la regola? Giammai. Nelle cose scritte con l’immaginazione non ci sono regole prefissate, sennò sarebbe cronaca. Invece ci troviamo in un vero e proprio libro col titolo da “calembour“. Quindi il Patrizio letterario gira per l’Europa, torna in Sardegna, sa già quello che non vuole fare, mentre il resto rimane nelle possibilità: non vuole andare in miniera ma non lo vorrebbe neanche per i suoi parenti di sesso maschile, perché non ci si abitua mai.
Vi riporto un estratto del racconto della miniera, o meglio dei racconti della miniera che da soli valgono il prezzo del libro:
Torna anche oggi. Diverse volte è capitato di vederlo arrivare ancora sporco e col carbone attaccato addosso, non c’è stato il tempo per una doccia, non c’era stato perché c’era qualcuno da tirar fuori dai pozzi crollati, qualcuno vivo, altri no.
L’autore sente nei ricordi la stanchezza e “il mestiere di vivere“, attraversati come sono non tutti, ma alcuni, da un sentimento doloroso e umbratile tipico dello scrittore Cesare Pavese. Ma queste ondate di emozione non sono tutto il libro; anzi, la goliardia, lo scherzo, il cameratismo maschile, gli approcci amorosi sono tutte tappe per un uomo fatto, ora, mediamente tranquillo, con due figli, una moglie, un gatto e la sua professione.
Ovviamente lo spazio dedicato ai disegni il lettore non lo deve compilare per forza; lo si può vedere anche come semplice parentesi tra un racconto e l’altro. Chiaramente in certi passaggi sono chiamati in causa più i lettori che sono stati adolescenti o giovani negli anni Ottanta, dove bisognava fare la fila ai telefoni pubblici e, se ci si trovava all’estero, i gettoni erano conservati in una capace busta di plastica. Senza Unione Europea l’estero era già Mentone dove accettavano i franchi, a Parigi, manco a ripeterlo. A Berlino si pagava in marchi.
La scrittura di Patrizio Zurru è poetica ma con moderazione, ha spunti di umorismo che si ricordano con piacere, è spaziosa e quindi si può iniziare da un racconto che sta in mezzo al libro; ma se hanno deciso di metterlo in quel modo e inserirlo proprio in quello spazio un motivo ci sarà.
“Dove ci sono gli uomini, stai pur certo che c’è un inizio di corruzione.”
Anno 1944. Ancora in pochi lo hanno capito o ammesso, ma la Seconda guerra mondiale sta giungendo al suo epilogo, perlomeno in Europa. Di certo non lo ha compreso – e neppure ne è interessato – un gruppo di uomini reclusi in un campo d’internamento francese; uomini sfiniti dagli stenti, in attesa di condanna, ché pensare a un processo pare oramai un’utopia.
Questo è lo scenario gelido e opprimente che ci introduce in Malapace, il nuovo romanzo di Francesca Veltri pubblicato da Miraggi nella collana Scafiblù, dedicata alle penne stilisticamente e contenutisticamente più anarchiche della Penisola.
Uomini sott’accusa per le proprie scelte
Tra i prigionieri c’è Antoine, soldato volontario della Légion des Volontaires Français, costola francese delle milizie tedesche, avvinghiatosi alla storica nazione nemica perché folgorato dalla perfidia di Adolf Hitler susseguentemente all’aggressione dell’Unione Sovietica del 1941, a dispetto del patto Molotov-Ribbentrop che due anni prima aveva sottoscritto la vicinanza – o sopportazione reciproca – tra il Führer e Stalin:
“Questo è un uomo senza scrupoli, ho pensato, ma è così che dev’essere un capo”.
Di impronosticabili cambi di bandiera, François, un altro internato, ne ha fatti pure di più: figlio di un ex militare decorato al valore durante la Grande Guerra, è stato prima comunista, poi pacifista, infine collaborazionista dei tedeschi e funzionario del ministero della Propaganda a Vichy.
“[…] è la mia stessa ipocrisia a farmi nausea. […] Ero al Ministero della Propaganda, dove che ci piacesse o meno difendevamo quello che loro e i nazisti facevano in Francia.”
François, voce narrante di Malapace, si rivela presto un uomo debole, cagionevole di salute, condizionato dal giudizio altrui, a disagio con le proprie decisioni – anzi, come letto, letteralmente nauseato da esse –, timoroso che non siano accettate, che gli vengano ricordate mettendolo nuovamente con le spalle al muro, psichicamente sott’accusa, rendendo manifeste ancora una volta la sua cedevolezza e la sua pusillanimità. Prima che in quella del campo di prigionia, François è rinchiuso nella gabbia di ignominia da lui generata: la delusione data agli altri gli è assai più greve di quella che ha dato a se stesso.
Si vergogna profondamente di essersi arreso, di avere aiutato i tedeschi a stabilirsi a casa sua, di avere scelto quello che reputava il “male minore”; una decisione presa da molti francesi nella insensata speranza di mantenere inalterati la propria integrità e i propri territori. Fare cessare il fuoco nazista, consegnare al Terzo Reich il Nord del Paese – Parigi inclusa – per poi costruire, nella restante parte, un nuovo governo francese, quello dello stato collaborazionista di Vichy.
La patria dell’Illuminismo si arrendeva al tiranno tedesco, ché “la guerra andava fermata a qualsiasi costo”.
“Perché mi ha guardato con quell’aria stupefatta? In effetti erano anni che non ci incontravamo, ma avevamo un certo numero di conoscenti in comune, e avrei pensato che lui sapesse tutto di me, così come io sapevo di lui anche più di quello che avrei voluto.”
Il torturatore e il pacifista
L’incontro tra i due uomini – torturatore impenitente Antoine, pacifista colmo di sensi di colpa François – è occasione per ripensare ai rispettivi percorsi di vita, per fare emergere episodi sottovalutati dell’infanzia, rancori malcurati, per riflettere sulla ferocia dei conflitti, sulle ipocrisie e le meschinità degli ideali politici, amati, traditi e disconosciuti, credi messi in discussione, ma senza il coraggio necessario per ammetterlo a se stessi e agli altri.
Francesca Veltri ci conduce in questo vortice in cui i disagi del presente si mescolano alle passioni incerte del passato: la ancestrale gelosia di François per Martine, socialista e anticlericale di origini ebraiche, amore mai accolto e compiuto, e Jean-Pierre, rivoluzionario e fermo idealista, il ragazzo che François avrebbe voluto essere prima di tradire la famiglia, la fede, i valori in cui è cresciuto.
La guerra va fermata a ogni costo? Anche tramite una “malapace”?
La lettura procede verso il fine che pagina dopo pagina diviene ineluttabile: la resa dei conti. Un confronto – magnificamente orchestrato dall’autrice – traboccante d’odio ma non più derogabile, rude ma attraente, che crea fratture nella coscienza, che divide inevitabilmente anche il pubblico. È giusto proseguire una guerra per non soccombere e risvegliarsi schiavi dell’invasore? Oppure lo spargimento di sangue va fermato a ogni costo? Come si può torturare una persona per obbedire a un ideale? Come ci si può accanire su un corpo inerme, ridotto a non più che pelle e anima?
“E a ogni colpo, ogni urlo, vedi letteralmente la lotta fra la carne che si ribella al dolore, che farebbe qualsiasi cosa per farlo cessare, e l’anima o quel che è che gli impedisce di arrendersi, quando in fondo basterebbe così poco… qualche parola soltanto, e tutto sarebbe finito.”
È semplice comprendere che i temi trattati da Francesca Veltri sono quanto mai attuali. Malapace ci pone dinanzi a dei bivi, non ci lascia lettori passivi, ma esamina il nostro pensiero, ci risveglia dal sogno delle ideologie e ci fa sentire colpevoli e innocenti, condannati e assolti per le scelte compiute o anche solo assecondate.
Dopo Edipo a Berlino, Veltri riapre le pieghe degli eventi che hanno segnato l’ultimo conflitto mondiale con un romanzo storico e politico che stuzzica i nervi scoperti di una guerra che ha lasciato capitoli irrisolti, strascichi mai affrontati e divenuti autentici tabù.
È appena uscito un romanzo di Daniela Cicchetta che vuole essere, nello stesso tempo, un monito contro la dissipazione che la specie umana sta facendo del pianeta che abita e la visione di una realtà che vada oltre il mondo apparente che tutti conosciamo. Sono innumerevoli i riferimenti nell’immaginario che possono venire in mente al lettore di questo libro, dal Vagabondo delle stelle di Jack London a film come Interstellar e Matrix. S’intitola L’ultima lettera di Einstein (Miraggi 2022) e quindi chiama come testimone anche quello che è stato il più noto scienziato del Novecento, del quale racconta dei documenti inediti riscoperti in un futuro distopico. Il romanzo, infatti, racconta tre storie che si svolgono nel passato, nel presente e nel futuro, ma che nella realtà di questa storia avvengono in uno spazio temporale unico. Le tre protagoniste sono Dunia (una donna di oggi dalla sensibilità particolare), Dymfna (una sacerdotessa druida che vive nel 54 a.C. durante lo sbarco di Giulio Cesare in Britannia) e Deena (una ricercatrice del 2190), legate tra loro da un legame misterioso e astrale. I temi del romanzo sono così interessanti e la storia così coinvolgente che non poteva mancare un’intervista all’autrice, no?
Come nasce l’idea di questo romanzo?
Probabilmente questo romanzo nasce con me per poi prendere voce quando ho cominciato a percepire quello che le mie protagoniste chiamano “il dolore del mondo”. Sono anni che ci lavoro, ma era rimasto sospeso in attesa di un messaggio d’inizio, così come la narrazione dei viaggi astrali che Dymfna, Dunia e Deena fanno continuamente. Fogli su fogli scritti a penna che attendevano di essere inseriti in una storia che è arrivata nel 2019, durante un viaggio a Stonehenge. Citando Dunia, la donna del presente: “Come in un puzzle senza un’immagine di riferimento, vidi ogni più piccolo tassello adattarsi alla perfezione a un disegno che non avevo ancora compreso e che era sempre stato lì, sotto i miei occhi”
C’è molto della tua vita in questa storia?
La voce narrante è Dunia, una donna della nostra epoca, e sì, mi somiglia molto per esperienze di vita e pensiero filosofico. In sanscrito Dunia significa Terra, era anche a lei che volevo dar voce. Il romanzo è pieno di riferimenti simbolici che raccontano quello che a parole non può essere spiegato, il continuum passato/presente/futuro, gli elementi di acqua terra e aria, la triplice divinità femminile fanciulla madre e anziana o gioia pace e amore, l’identità collettiva e la fusione con la Natura. C’è anche un’araba fenice come buon auspicio, mi auguro che assolva il suo compito grazie a un risveglio generale.
Il tuo sembra quasi un messaggio che riguarda la possibile distruzione climatica del nostro pianeta, secondo te gli scrittori possono avere un ruolo attivo nel denunciare i drammi contemporanei, oppure la loro parola cade nel vuoto?
Dipende, se siamo arrivati a questo punto di sicuro il problema è nell’indolenza, nel procrastinare decisioni e azioni. Nella storia si parla di ben due allarmi, reali, lanciati dagli scienziati di tutto il mondo, ti rispondo con le parole di Deena, la donna del futuro:
Era il 1992 e diversi scienziati, premi Nobel e altri millesettecento firmatari allertarono che l’impatto delle attività umane sull’ambiente avrebbe danneggiato il pianeta in modo irrimediabile, definendo il riscaldamento globale una delle minacce più gravi per il futuro.Venticinque anni dopo ci fu un nuovo allarme, questa volta lanciato da oltre quindicimila scienziati!
Il mio romanzo è una goccia nel mare (inquinato) delle denunce a tutela dell’ambiente, trascurato per ragioni politiche ed economiche, non abbiamo mai teso l’orecchio con vero interesse. Siamo il capitolo più distruttivo della storia dell’Umanità; narro anche di rivolte neonaziste contro la globalizzazione iniziate in Eurasia e delle guerre per il predominio, del fatto che depauperiamo dove viviamo e che siamo naturalmente autodistruttivi, egoriferiti. Non ti nego che sono rimasta scossa quando molte delle cose che avevo scritto hanno cominciato a verificarsi. Comunque dobbiamo continuare a parlarne e a scriverne, non smettere mai, anche una piccola goccia di consapevolezza può fare la differenza.
Hai narrato tre donne, pensi che ci sia una sensibilità femminile più attenta di quella maschile per questi temi?
Non amo fare differenza di genere per la sensibilità, ho narrato di tre donne perchè questa è la storia che mi è arrivata, la quarta protagonista è la Dea Madre che ascolta, subisce e reagisce.
I personaggi maschili del passato e del futuro vivono retaggi egotici che non riescono a superare, forse qui si potrebbe trovare un clichè, però ti assicuro che non è legato al loro sesso ma al tipo di ruolo che ricoprono nelle due società. Flavio Aurelio è un centurione romano che fa della conquista una filosofia di vita e Dymfna, la donna del passato, cerca di risvegliare in lui una conoscenza animica sopita forzando la naturale evoluzione degli eventi. Marcel è uno scienziato del futuro, legato all’indottrinamento di una società che decide della sua vita sociale e sentimentale, ma anche una persona estremamente rigida, di quelli che non ho mai compreso, che rinunciano a situazioni o persone facendosi del male ora per non soffrire successivamente. Con Flavio Aurelio e Marcel volevo proprio identificare una sorta di autolesionismo di chi segue troppo la ragione accantonando il cuore o di chi non si ritiene mai responsabile delle sue azioni. La società di oggi, se vogliamo: i due uomini rappresentano quello che siamo diventati, autoriferiti e disposti anche a fare del male pur di non accogliere l’ignoto che ci destabilizzerebbe.
Chi è per te Einstein?
Un uomo estremamente curioso, in buona fede, intrappolato nella folle corsa dell’esplorazione scientica, che ha sofferto del genìo e della speculazione fatta sulle sue scoperte. Un uomo solo, un sognatore sicuramente, un difensore della libertà, con grandi difficoltà ad amare e a lasciarsi andare, conscio e pentito di aver confinato il figlio in un ospedale psichiatrico.
Un uomo di coscienza, addolorato dall’utilizzo nefasto della bomba atomica, uno scienziato che ha cercato di avvertire il mondo di quello a cui stava andando incontro. Sua la citazione: “Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta sì: con bastoni e pietre”. All’interno del romanzo è citato il Manifesto Russell-Einstein con il quale, poco prima di morire, insieme al filosofo e matematico, si fa promotore di una dichiarazione a favore del disarmo nucleare in nome della pace. Ci ha visto lungo, non credi?
Quanto c’è di vero e di Einstein in questa “Lettera”?
Ci sono due citazioni nella lunga lettera che Albert Einstein scrive al figlio Eduard: “Tutto è energia e questo è tutto quel che esiste” e “Credo di aver capito che uno stile di vita vegetariano, per il suo effetto puramente fisico sul temperamento umano, avrebbe la più benefica influenza sulle sorti dell’umanità”. Il resto mi è arrivato, e non mi chiedere come, sotto dettatura di un inconscio che spesso muove le mie mani sulla tastiera. È una lettera piena d’amore per il figlio e l’Universo, che si chiude con la consapevolezza di un qualcosa che va oltre la ragione scientifica della quale si era sempre fatto paladino. Una coscienza che gli arriva attraverso una “nota stonata”, ma solo quando permetterà al suo sentire di allinearsi al suo sapere, per scoprire che il vero “orizzonte degli eventi” è dentro di noi.
Come hai lavorato per raccontare la parte storica del romanzo?
Nel 2019 ho atteso l’alba del solstizio d’estate a Stonehenge, all’interno del cerchio di Pietre, è lì che la storia si è chiusa, diventando chiara nella mia mente. Fortissimo il messaggio, ho capito che non potevo più rimandare quello che sentivo di dover scrivere. Ricostruire i colori e i profumi della Britannia non è stato difficile, da sempre sono attratta da quei luoghi e dalla cultura druida, i tempi coincidevano con le prime guerre di conquista in Gallia, e avevo studiato che alcuni contingenti si erano spinti in Britannia per una fase esplorativa, dove rimasero solo qualche giorno per tornare successivamente. Lì nasce la storia d’amore tra Flavio Aurelio, centurione romano, e Dymfna, sacerdotessa druida.
Nell’immaginare il futuro, ti sei servita di qualche studio scientifico?
Per quello ho usato l’immaginazione, almeno credo, perché le informazioni sono arrivate fluidamente, “vedevo” ciò che scrivevo e ne ero immensamente dispiaciuta. Deena è una ricercatrice e abita il futuro distopico del 2190, dove la comunicazione è cerebrale, si vive sottoterra al riparo dal sole malato e l’alimentazione di sintesi poiché nulla nasce più sul Pianeta, depauperato dalle generazioni precedenti. Ha un compagno obbligatoriamente a lei abbinato in base alla compatibilità del DNA, ma viene coinvolta nel Progetto Connaissance, ultima possibilità di salvare la Terra, da Marcel, l’uomo che ha amato e dal quale si è dovuta allontanare per rispettare le regole della società nella quale vive. Qualche anticipazione c’era già nella mia antologia di racconti Doppio Legame: abbinamento sul Dna, teoria delle stringhe e buco spazio temporale. Avevo dato una prima voce a questi argomenti che mi hanno sempre affascinato.
A un certo punto nel romanzo si parla di una lingua perduta, pensi che in futuro molto di quello che siamo si perderà?
Di certo non mi preoccupa la perdita di una lingua, nel futuro che ho dipinto si comunica attraverso quella ausiliaria, la stessa in tutto il pianeta. Stiamo già perdendo molto di quello che avevamo conquistato con millenni di evoluzione, siamo tornati selvaggi, ci siamo anestetizzati emotivamente.
Vorrei tanto si abbandonassero le guerre, questo folle accanimento per il predominio, il sacrificio di vite per interessi economici e politici, l’arroganza verso il nostro pianeta che ci porta a saccheggiare dove viviamo. Il dolore del mondo, lo senti anche tu?
Hai raccontato tre epoche, oltre alla nostra anche quella storica degli antichi druidi e quella fantascientifica della società futura. In quale ti sarebbe piaciuto di più vivere?
Non importa se passato presente o futuro, vorrei vivere in una società forse utopica, che non conosce violenza o imposizioni, dove l’interscambio del dare e avere sia spontaneo, le persone in armonia e l’interesse per l’anima sia almeno pari a quello per la mente e il benessere economico.
Una società dove non ci sia bisogno di sgomitare e ognuno possa esprimersi in quello che gli viene meglio. Una collettività che si sostiene e che guarda al futuro delle generazioni successive, con l’orgoglio di essersi meritata un posto in questa dimensione per migliorarsi.
Sono una sognatrice, lo so, ma se in uno dei prossimi viaggi astrali dovessi trovarla, mio caro Paolo, verresti con me?
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