Luca Quarin vive a Udine, dove è nato (1965) e dove si occupa di ambiente, design e architettura.Di sangue e di ferro (Miraggi edizioni, 2020)è il suo secondo romanzo. Il primo, Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, 2017, vincitore del Premio Letteratura dell’Istituto Italia di Cultura di Napoli e del Golden Book Awards) era ambientato negli Usa, il secondo affonda le radici in patria, in Friuli, terra d’origine dell’autore. Scelta ben ponderata, che mescola realtà e finzione, come egli stesso ci spiegherà.
[Marco Quarin] Cominciamo dal titolo del tuo nuovo romanzo: Di sangue e di ferro. Se permetti lo sfrutterei subito per spiegare l’arcano dello scrittore Quarin intervistato da un altro Quarin: di sangue la lontana parentela, di ferro l’amicizia. Soddisfatta la curiosità del lettore, in breve cosa ci racconta la trama di Di sangue e di ferro? [Luca Quarin] Il protagonista del romanzo, Andrea Ferro, è un quasi cinquantenne che vive ancora come un ventenne: ciondola in un limbo indefinito facendo l’assistente in università, canta canzoni country in un locale di periferia, aiuta un amico a mandare avanti una casa editrice, insegue una vecchia adolescente come lui, Silvia, che lo abbandona in continuazione e fugge in altri luoghi del mondo, con altri uomini. Ma un giorno il suo disequilibrio si infrange. L’amico gli sottopone uno “strano romanzo”, che con il passare dei giorni si intrufola nella sua vita. L’agonia della nonna lo costringe a ritornare nella sua città d’origine. Comincia così la discesa di Andrea in un tempo che si è sempre sforzato di dimenticare. Le vicende della destra eversiva negli anni settanta. L’attentato di Peteano, nel 1972, e il depistaggio che per dodici anni ha impedito di conoscerne i colpevoli.
Da dove è venuta la storia? Quando e come è nata? L’idea di questo romanzo è nata sei o sette anni fa da una serie di discorsi fatti con Bruna Graziani, la fondatrice del festival Cartacarbone, l’unico festival in Italia dedicato alla scrittura autobiografica, e dalla presentazione del libro di Walter Siti Resistere non serve a niente. Mi era rimasto il desiderio di dire la mia su autobiografia e autofinzione, provando che la prima è impossibile e la seconda immorale.
La strage di Petano del 1972, l’eversione nera nel Friuli terra di confine. Perché hanno attirato il tuo interesse? Perché è il prototipo di come i fatti diventano storia, a prescindere dalla verità. Le domande suscitate dall’esplosione del 31 maggio 1972 nella popolazione friulana e italiana in generale (che cosa è accaduto? che cosa sta accadendo? chi è stato?) hanno trovato nei mesi successivi una risposta che non aveva niente a che vedere con l’attentato – un attentato contro lo Stato compiuto da una cellula di neofascisti che non accettava la svolta neo-governativa di Almirante -: l’arresto di sei ragazzi goriziani e il conseguente processo. La verità è emersa dodici anni dopo, quando Vincenzo Vinciguerra ha confessato al giudice Casson i retroscena della vicenda, senza però riuscire a incidere sulla memoria storica tanto che ancora oggi si parla di Peteano come un momento della strategia della tensione, quando è stato l’esatto contrario.
Da un lato c’è la Storia (le date, gli eventi, i fatti ri-costruiti dagli storici) dall’altro le storie dei singoli che pochi, perlopiù romanzieri, raccontano. Cos’è per te la Storia? Borges sosteneva che fosse uno strumento per riprodurre la realtà, sottintendendo, forse, che realtà e verità difficilmente coincidono. Mi pare che la Storia sia una necessità umana di dare ordine e soprattutto significato alle macerie che i fatti lasciano sempre alle loro spalle. Dunque la Storia esiste senza dubbio come necessità ed esiste anche come pratica. Si tratta di una pratica laboriosa, molto artigianale, per cucire insieme i fatti all’interno di un sistema semantico che comunemente chiamiamo “struttura narrativa”, l’unico modo che conosciamo per continuare ad attraversare le ombre che formano la realtà. Un filo di Arianna che apparentemente ci impedisce di perderci nel nulla ma che probabilmente ci trattiene all’interno del labirinto da cui cerchiamo di uscire.
Come collocheresti questa tua nuova opera rispetto alla precedente (Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, 2017)? Dopo Il battito oscuro del mondo ho sentito il bisogno di sfidarmi su due temi che non ero stato in grado di affrontare, la mia esperienza personale e i luoghi in cui questa si è svolta. Volevo scrivere una storia friulana che avesse a che fare con me. Ne è venuto fuori un romanzo più intimo del precedente, come era ovvio, che guarda il mondo da un altro punto di vista, quello del racconto che ognuno di noi fa a sé stesso del proprio vissuto.
Da lettore, ho avuto l’impressione che la tua scrittura oscilli tra il diurno, in cui metti in gioco le tue idee, meglio ideali, e il notturno, in cui fai i conti con i demoni, con “i sosia che abitano nel profondo del nostro cuore”, per citare Magris. Se è così, è una scelta consapevole? La figura del sosia è molto presente nella mia scrittura, dai tre John Ogden de Il battito oscuro del mondo ai due Quarin di Di sangue e di ferro. Come l’identità si forma nel riverbero degli altri, così la scrittura si forma nel sonnambulismo della realtà, tra la luce del sogno e il buio di quello che accade, in un processo che è sempre incomprensibile benché si verifichi in continuazione.
Cos’è per te fare letteratura? “Nuotare sott’acqua trattenendo il fiato” (Francis S. Fitzgerarld) come suggerisce la copertina de Il battito oscuro del mondo? E cosa ne pensi dell’assioma calviniano “la letteratura vale per il suo potere di mistificazione, ha nella mistificazione la sua verità”? La letteratura è l’unico modo che conosco per cucire insieme tutto quello che bolle dentro di me e che nella realtà non riesce a trovare un posto comodo dove stare. Ricardo Piglia sosteneva che l’unica cosa reale che ci accade è la letteratura.
[Esce oggi per la collana “scafiblù” di Miraggi Edizioni il romanzo I Pellicanidi Sergio La Chiusa, finalista Premio Calvino 2019, Menzione Speciale Treccani. Ne presentiamo l’incipit e un estratto del secondo capitolo, preceduti dalla nota di Giulio Mozzi che accompagna il libro (it)]
Il giovane Pellicani è un chiacchierone. Si presenta una sera – una sera tardi – nella casa del padre, casa dalla quale si era allontanato – dopo aver sottratto certi risparmi da un certo cassetto – vent’anni prima. L’immobile, un condominio di sei, sette piani, è disastrato. Ma la scritta «Pellicani» sul campanello dell’ultimo piano c’è ancora; e la porta è appena accostata. Il giovane Pellicani – un completo grigio un po’ sdrucito, una valigetta ventiquattrore portata solo per darsi un tono – vuole fermarsi una notte e via, andare altrove: ha degli affari in Cina, sostiene. Il padre avrà dimenticato i fatti di vent’anni prima, lo accoglierà volentieri. Tuttavia nell’appartamento il giovane Pellicani trova solo un vecchio. Somigliante un po’, questo è vero, soprattutto nel naso, a Pellicani padre. Ma un vecchio, insomma! Va bene che sono passati vent’anni… Parla, parla, il giovane Pellicani, raccontando tutto ciò che fa, tutto ciò che vede, l’appartamento, la biancheria stesa in una stanza, la donna che tutti i giorni viene a cucinare il minestrone al vecchio; parla, parla, il giovane Pellicani, e noi lettori siamo presi in questa sua infernale chiacchiera, nel suo ostinato non credere a ciò che vede, nel suo ipotizzare, reinventare, spiegare, trasfigurare la banale realtà che gli si presenta davanti: finché ci arrendiamo, smettiamo di farci domande, non ci interessa più se il vecchio nella casa sia o non sia Pellicani padre, se l’uomo nello specchio sia il vero Pellicani giovane o un impostore: ci interessa solo abbandonarci al fervore di questa inesauribile chiacchiera. Rare volte la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé; e rare volte tanta ricchezza narrativa viene con tanta disinvoltura stipata in un solo romanzo, in un solo appartamento, quasi in una sola stanza.
Giulio Mozzi
* * *
Non che avessi intenzione d’installarmi in casa sua, intendiamoci, ma i miei impegni m’avevano portato nei dintorni e mi pareva scorretto non andare nemmeno a vedere come se la passava. Tutto sommato era pur sempre mio padre. Mio padre? Ho detto mio padre? Lo ammetto, a volte mi lascio trascinare dall’entusiasmo. A ogni modo m’immaginavo la sorpresa: vedermi comparire dopo vent’anni, realizzato nonostante il suo scetticismo, e con tanto di completo grigio topo e valigetta da manager. Anche se va detto che il completo era un po’ sciupato, per via delle notti passate in trasferta, e la valigetta conteneva solo pochi articoli di cancelleria rubati in ditta tanto per non andarmene a mani vuote, e una mutanda di ricambio, anche, per gli appuntamenti importanti. Ma non ci avrebbe fatto caso: la gioia di rivedermi avrebbe messo in secondo piano i dettagli, e anche se c’eravamo separati in malo modo scambiandoci ingiurie sulle scale non m’avrebbe negato ospitalità per una notte. D’altra parte il tempo risolve tutto, risana i rancori, rimargina le ferite, e non era per nulla detto che rimuginasse an- cora sui risparmi che gli avevo prelevato dal comodino prima di partire, a titolo di liquidazione, per così dire.
« Mi trovavo a passare da queste parti per affari », avrei spiegato esibendo con noncuranza la valigetta, che ora stavo usando per ripararmi da una pioggerellina molesta che intanto che ragionavo sembrava rammentarmi con una certa minuziosa pedanteria che non avevo nemmeno un soprabito. Ma che importava il soprabito? Papà si sarebbe congratulato per la mia carriera di cui valigetta e completo grigio topo erano sintomi indiscutibili, io avrei minimizzato scrollando le spalle con aria superiore: « Ah, la valigetta dici? Sciocchezze, pensa che ho solo messo su un’impresa d’import-export, roba da nulla », e avrei chiesto se per caso c’era ancora il mio letto, lui sarebbe filato tutto contento a preparare la biancheria pulita per l’ospite illustre e tanti saluti. Al mattino sarei ripartito per la mia strada. Perché io, sia messo subito in chiaro, sono un individuo indipendente, e anzi metto l’indipendenza sopra ogni altro valore.
…
« Papà », mormorai, ma la parola mi era sembrata sconcia, e mi era morta sulla lingua lasciandomi un repellente sapore zuccheroso, come di sciroppo per la tosse. Mi ricomposi. Guardai meglio il tizio che, coricato su un letto matrimoniale, mi scrutava con due occhi terrorizzati. Mica era mio padre! Macché! Un vecchio era! E per di più aveva tutta l’aria di un paralitico, ridotto a un manichino dalla vita in giù. Che ci faceva un tale relitto in casa di mio padre? Come si permetteva di occupare il suo posto? Avevo la tentazione di aggredire il vecchio abusivo, ma mi trattenni. D’altro canto le cose non erano per nulla chiare. Potevo, per esempio, essere capitato in casa d’altri. Il nome sulla porta non provava nulla. Mio padre non era certo l’unico Pellicani in circolazione. Poteva benissimo trattarsi di un altro Pellicani… Un altro Pellicani? Mi veniva da ridere a pensarci. Ma la cosa m’intrigava tutto sommato. Mio padre si levava subito di torno. Del resto, che voleva? Non ci vedevamo da vent’anni! Doveva intromettersi proprio ora? In ogni caso, restava da capire chi era costui. Un Pellicani legittimo? Uno che occupava il posto che gli competeva? Rinsecchito, prosciugato, ridotto per così dire all’osso, aveva invero una cert’aria da individuo non del tutto in regola: sembrava insomma un renitente, uno che resisteva illegalmente al mutamento dei tempi e invece di rispondere all’appello del mercato se ne stava per conto suo, dedito magari a una vita contemplativa che non era in linea con le politiche vigenti: mentre lo scrutavo sembrava muovere le mandibole a vuoto, come impegnato in una sua ruminazione incessante e puntigliosa.
« Buon appetito », dissi, e poi, per rassicurarlo, visto che mi fissava con un’aria preoccupata, aggiunsi che ero diplomato in ragioneria e che sapevo come comportarmi in casa d’altri, e rimarcai quel “casa d’altri” come per caricarlo di sottintesi, che però io stesso non avevo compreso. A dire il vero non avevo le idee chiare. Improvvisavo e stavo sul vago circa le ragioni della mia visita e in attesa che il vecchio rivelasse per primo le sue intenzioni investigavo, tastavo il terreno, chiedevo se non fosse imprudente passare la notte con la luce accesa e la porta aperta, se la luce non potesse per esempio attirare in casa individui molesti, e intanto gli camminavo per la stanza con la mia valigetta leggermente sgocciolante e notavo che intorno alla lampada da letto ruotavano come indemoniati certi insetti minuscoli: « Di questi tempi non si sa mai chi può capitarti in casa », continuavo allusivo, perché avevo come il sospetto che aspettasse qualcuno e che non avesse lasciato la porta aperta senza ragione. Il vecchio però non si lasciava scappare nulla. Doveva avere un carattere chiuso, reticente, e così ostinato che per convincerlo a svelare i suoi piani ci sarebbero volute tecniche d’interrogatorio avanzate, e manette, catene, cavi elettrici e altri strumenti sofisticati di cui ero sprovvisto. Anche se a dirla tutta sembrava più che altro un paralitico che aveva perso l’uso della parola, magari per merito di un ictus provvidenziale che gli aveva strappato per sempre i tormentosi dilemmi del linguaggio. Mentre investigavo tra le medicine ammucchiate sul comodino in cerca d’indizi, il vecchio, notavo ora, andava schiacciando con una mano una pallina antistress, come se la mia comparsa l’avesse messo in uno stato d’agitazione.
D’altro canto era comprensibile che diffidasse dello sconosciuto che s’aggirava per casa con la valigetta e che dal suo punto di vista d’ottantenne, e per di più paralitico, poteva passare per un messaggero dei tempi nuovi, uno di quei rottamatori che vanno casa per casa a raccattare ruderi e anticaglie da portare al macero, un angelo della morte insomma che per rendersi più accettabile e stare al passo coi tempi s’era mascherato da uomo d’affari invece di manifestarsi nel costume tradizionale di scheletro incappucciato con tanto di falce da tetro mietitore, che, montando un tristo cavallino grigio, anch’egli tradizionale, e quindi scheletrito e spelacchiato, sarebbe stato costretto ad arrancare inverosimile nel traffico sulla sua cavalcatura svogliata e claudicante e sorbirsi pure le lamentele degli automobilisti, anche per via degli escrementi che il cavallino disseminava per strada, come per protesta – e d’altra parte come non capirlo, il cavallino: la vecchiaia, i polmoni oppressi dall’inquinamento, nell’animo il peso di un lavoro a tempo indeterminato per cui non provava una vera vocazione e che per di più comprometteva la sua immagine pubblica, e mentre trasportava penosamente il suo impresario ossuto certo nell’intimo suo vagheggiava un’altra vita, e nonostante l’età avanzata, i reumatismi, i primi sintomi dell’artrosi, s’immaginava magari d’essere scritturato per uno spot pubblicitario su qualche marca di shampoo e galoppare libero di tristanzuoli ingombri su una sterminata spiaggia atlantica portando allegramente in groppa una bell’amazzone bionda coi capelli al vento, e le natiche carnose e compiacenti, invece del cinto pelvico dell’impresario che gli straziava la pelle e gli ricordava a ogni passo il suo triste destino di subordinato e messo di sciagure… Ebbene, dicevo? Ah, licenziato il riluttante e lagnoso cavallino, peraltro obsoleto per via degli sviluppi nel settore dei trasporti, era giunto con un comodo suv nero dai vetri oscurati, l’aveva lasciato in un parcheggio sotterraneo e si era presentato in modo discreto, con tutti gli attributi della legalità e del libero commercio, tra cui appunto una valigetta piena di contratti e moduli vari. Anche se il vestito a ben vedere era stropicciato e rivelava che a dispetto della valigetta il tizio era dedito a lavori sordidi e manuali: nella giacca si notavano persino strappi e scuciture che lasciavano trapelare in una mente immaginativa sospetti di dispute, anche violente: le resistenze dei soggetti ormai superati, vecchi testardi che non volevano liberamente sottoscrivere il contratto che veniva loro proposto, e invece di lasciarsi prendere con un mite cenno di consenso, polemizzavano sino all’ultimo e lottavano persino accanendosi ridicolmente con le unghie contro il vestito del rottamatore salito dal regno delle ombre. Normale quindi che il vecchio stesse sulle sue. D’altro canto, anche l’arrivo a ora tarda, notturna, era equivoco e non si sposava con la legalità, incline invece alle ore diurne. Diffidare delle apparenze! Diffidare! mi dicevo complimentandomi intimamente con il vecchio che restava chiuso in un mutismo impenetrabile.
A furia di diffidare però mi venne il sospetto che costui non solo non era mio padre, ma nemmeno si chiamava Pellicani, che il nome sulla porta era parte di una messinscena e che ero vittima di un’oscura macchinazione. Provai a chiamarlo per metterlo alla prova. « Pellicani », dissi come sovrappensiero, mentre, senza mollare la valigetta, ma con le pantofole ai piedi, mi aggiravo per la stanza simulando interesse per i mobili, « Pellicani », e subito con la coda dell’occhio vidi sulla specchiera la testa di Pellicani voltarsi verso di me. Caso? Coincidenza? Riprovai: « Pellicani », e poi ancora: « Pellicani », « Pellicani », « Pellicani », andavo ripetendo camminando intanto per togliergli punti di riferimento, e tutte le volte il vecchio ruotava la testa con un movimento meccanico, come inseguendo il suo nome che volava inafferrabile da un punto all’altro della stanza. Bisognava riconoscere che rispondeva correttamente agli stimoli. « Allora, sei proprio un Pellicani? », chiesi infine fissandolo in volto. Il vecchio sembrava acconsentire con gli occhi, che gli si erano illuminati, invasi da una specie d’orgoglio di casta. Doveva trattarsi di un Pellicani autentico. Un Pellicani doc, per così dire. Anche se restava un che di dubbio in tutta la persona.
Etnabook 2020 – Presentato oggi il programma e svelati i nomi delle sezioni ‘A ‘e ‘B – Enrico Morello’ del premio annesso “Cultura sotto il vulcano”
Il programma con gli ospiti
Venerdì 25 settembre, dove spicca anche un collegamento con Parigi con Giacomo Sartori a dialogare con Salvatore Massimo Fazio.
Ore 10.00-12:30 (Arcipelago delle storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per adulti
Ore 10.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Baret Magarian, Le macchinazioni (Ensemble). Modera Antonio Ciravolo
Ore 11.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Raffaele Montesano, Il cratere Dostoevskij (Lekton Edizioni). Interviene l’editore Emanuela Anna Calì. Modera Simone Belvedere
Ore 12.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Marisa Fasanella, Il male in corpo (Castelvecchi).Modera Valentina Carmen Chisari
Ore 15.00 (Palazzo della Cultura, Sala CCP): “Una scuola del fumetto in Sicilia: la metamorfosi, da passione a opportunità lavorativa”, incontro a cura della Scuola del fumetto di Palermo
Ore 15:00-17:00 (Arcipelago delle Storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per ragazzi
Ore 16.00 (Palazzo della Cultura Auditorium Concetto Marchesi): Incontro con Luca Quarin, Di sangue e di ferro (Miraggi Edizioni). Dialoga con l’autore Daniele Zito
Ore 17.00 (Campus Athena): “Metamorfosi fumettose: inventiamo un personaggio!”. Incontro Etnakids – Fumetto Junior. A cura di Matilde Leonforte e della Scuola del Fumetto di Palermo
Ore 17.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Luca Vullo, L’Italia s’è gesta. Come parlare italiano senza parlare (Ultra). Modera Fernando Massimo Adonia
Ore 18.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): EVENTO SPECIALE, video intervista esclusiva a Giacomo Sartori, Baco (Exorma). A cura di Salvatore Massimo Fazio
Ore 18.30 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Franco Di Guardo, I siciliani I dolci I Savoia. Dai fasti del Regno d’Italia all’avvento della Repubblica: una tradizione dolciaria viva che ancora oggi permane (Algra Editore). Modera Fabia Mustica
Ore 18.30 (Attimi Lounge Bar – Sant’Agata li Battiati): incontro con Andrea Serra, La luna viola (Miraggi). Modera Salvatore Massimo Fazio.
Ore 21.00 (Palazzo della Cultura, Corte): serata inaugurale con premiazione del Premio Letterario Etnabook – Cultura sotto il vulcano. Presentano: Ester Pantano e Paolo Maria Noseda
Sabato 26 settembre
Ore 09:00-11:00 (Arcipelago delle Storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per ragazzi
Ore 10.00 (Palazzo della Cultura, Sala CCP): incontro con Giorgia Landolfo, insegnante di Kundalini Yoga, “Medita, Scrivi, Trasformati”
Ore 11.00 (C.C. Katané): incontro con Gloriana Orlando, Un inconfessabile segreto (Algra Editore). Modera Lisa Bachis
Ore 12.00 (C.C. Katané): incontro Etnakids, “Color spots”. A cura di Matilde Leonforte
Ore 12.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Claudio Pelizzeni, In viaggio (Rizzoli – Illustrati). Modera Lucio Di Mauro
Ore 15:00-17:00 (Arcipelago delle Storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per adulti
Ore 15.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): Catania Book Party, “Siamo tutti farfalle, la terra è la nostra crisalide”. A cura di Valentina Carmen Chisari
Ore 16.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Rosario Palazzolo, La vita schifa, (Arkadia Editore). Modera Luciano Modica
Ore 17.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Anna Giurickovic Dato, Il grande me, (Fazi Editore).Modera Lucio di Mauro
Ore 17.30 (CC Katanè, Libreria Mondadori): incontro con Sarah Donzuso, Da sempre e per sempre. Due amiche, un viaggio e un segreto, (Algra Editore). Modera Katia Scapellato
Ore 18.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro Etnakids, “Color spots”. A cura di Matilde Leonforte
Ore 18.00 (Salone Russo – CGIL Catania): “Insegnare la Storia, insegnare la cittadinanza”. Incontro con Salvatore Adorno(curatore) e Andrea Miccichè (autore), Pensare storicamente (Franco Angeli). Modera Rosa Maria Di Natale
Ore 18.30 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Costanza Di Quattro, Donnafugata (Baldini+Castoldi). Modera Mario Incudine
Ore 20.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro con Daniele Di Frangia (curatore) e Daniele Lo Porto (autore), Catanesi per sempre (Edizioni della Sera). Modera Francesca Calì. Al termine dell’incontro è prevista la consegna del Premio Etnabook a Daniele Lo Porto
Ore 21.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro con Sara Rattaro, La giusta distanza, (Sperling&Kupfer). Modera Paolo Maria Noseda
Domenica 27 settembre
Ore 10.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Giovanna Spitaleri, Il sole dentro me (Edizioni Lett. Il Tricheco); Salvatore Gazzara, Luce perenne (Edizioni Lett. Il Tricheco)
Ore 11.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Vera Ambra, Catania, alla scoperta della catanesità in forma di parole (Akkuaria Edizioni). Dialogano con l’autrice Daniele Lo Porto e Santino Mirabella
Ore 12.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Andrea Mauri, Contagiati, (Ensemble). Modera Simone Rausi
Ore 15.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): Catania Book Party, “Siamo tutti farfalle, la terra è la nostra crisalide”. A cura di Valentina Carmen Chisari
Ore 16.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Antonella Nocera, Metafisica del sottosuolo (Divergenze). Modera Marco Patrone
Ore 17.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Barbara Bellomo, Il libro dei sette sigilli (Salani).Modera Paolo Maria Noseda
Ore 18.30 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Antonio Caprarica, La regina imperatrice (Sperling&Kupfer), interviene l’avv. Piero Lipera Modera Federica Duello. Al termine dell’incontro è prevista la consegna del Premio Etnabook ad Antonio Caprarica
Ore 20.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): proiezione e premiazione della Sezione Booktrailer. Proclamazione dei vincitori e premiazione della sezione C del Premio Letterario Etnabook – Cultura sotto il vulcano
Ore 21.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro con Dora Marchese, Nella terra di Iside. L’Egitto nell’immaginario letterario italiano (Carocci Editore). Dialogano con l’autrice Marilina Giaquinta e Maria Antonietta Ferraloro.
È un libro molto particolare e molto interessante è la sua struttura. I piani di lettura sono più di uno e tanti sono gli interrogativi di tipo filosofico che percorrono tutto il romanzo che verte fondamentalmente sulla verità, storica e individuale. Protagonisti sono Andrea Ferro uomo di mezza età che si trova ad Udine al capezzale della nonna, con cui è cresciuto,l’eversione nera in uno dei suoi più inquietanti episodi, la strage di Peteano (31 maggio 1972) e in parte lo scrittore stesso Luca Quarin (Nella foto in basso a destra).
Cercando di mettere ordine nella casa della nonna, Ferro si trova a dover mettere ordine anche nella sua vita e soprattutto in quella della sua famiglia. I suoi genitori muoiono in un incidente e lui rimane orfano a tre anni e cresce con i nonni paterni. E quello che piano piano viene alla luce, col quale non aveva mai voluto/saputo confrontarsi è il suo tormento. Altro tormento , come un grillo parlante, è Quarin che si rivolge a lui per la pubblicazione di un libro ,gli scrive mail e propone punti di vista, veri e propri quisillibus filisofici sulla narrazione, sulla scrittura e quant’altro relativo al libro che vorrebbe pubblicare. Si dipana nel romanzo una pagina di storia che si è protratta per anni prima di far venire alla luce una fitta trama di collegamenti e depistaggi legati all’attentato del 1972 che forse ha trovato una verità dopo più di dieci anni. A vario titolo erano coinvolti per ragioni opposte i nonni e i genitori di Ferro, ma il motivo del coinvolgimento è la scoperta con cui non è facile fare i conti. Scoprire una realtà difficile da digerire, pensare a come sarebbe stata la sua vita se, come è stato possibile che, chi erano davvero i genitori, i nonni, quanto erano implicati in una brutta storia?
Un tormento. E sebbene sembra chiaro che la verità relativa ad un evento storico è giusto che venga sempre a galla per giustizia dovuta, quella relativa alla propria storia familiare a posteriori è sempre dovuta? Parrebbe di sì, i conti dovrebbero sempre tornare anche se il costo è alto. Ma forse no, giova sempre scovare fino in fondo? Lo svelamento può cambiare il corso o le scelte di una vita adulta? Ferro vorrebbe dimenticare, lo scrittore può continuare a ricordare il passato. È un romanzo che fa riflettere molto. Nel romanzo Quarin riporta anche documenti ufficiali e contributi giornalistici che si intrecciano bene con la parte romanzata rendendo la lettura piacevole.
Pontescuro è un ponte di pietra. Pontescuro è un paese della bassa padana. C’era una volta un fiume, due sponde unite da questo ponte che, all’epoca della sua costruzione, univa il nulla con il nulla. Poi, da una parte un castello del padrone e, dall’altra, il paese “della malora”.
Pontescuro, il bellissimo libro di Luca Ragagnin, pubblicato dalla sempre attenta Miraggi Edizioni, è un po’ storia, un po’ favola nera, un po’ leggenda. La nebbia avvolge ogni cosa in quel luogo. Sono gli anni ’20 del secolo scorso, anni di marce e violenze fasciste. Anni di paura e di rancori. In quel luogo dimenticato da Dio, ma non dal male, la giovane figlia del padrone, la sfacciata, libera, troppo libera, Dafne, viene trovata morta con un nastro rosso attorno al collo.
Attorno a questo fatto una storia corale, raccontata dai vari protagonisti ma anche dal fiume, dal ponte stesso, dalle blatte e dalle ghiande. Uomini e natura parlano una lingua che incanta ma che colpisce duro. E raccontano una storia, un ambiente in cui la cattiveria, il rancore, l’invidia, l’ipocrisia, avvolgono tutto, proprio come quella maledetta e insana nebbia che si infila nei polmoni, che taglia il respiro, che lascia il fiato corto della bugia, del non detto, del pettegolezzo usato per scaricare le responsabilità sempre su altri e altro.
Un mondo di male in cui ciò che non si conforma, ciò che provoca, ciò che non si sottrae allo scandalo diventa, inevitabilmente, colpevole. E poco importa che, in realtà, sia solo la proiezione dell’infamia altrui. Questa sarà dunque la sorte della giovane Dafne e di Ciaccio, bambino abbandonato sulla riva del fiume e poi divenuto lo scemo del villaggio. Un marchio che, se da una parte lo difenderà, dall’altra sarà la sua condanna, il pregiudizio che si porta addosso.
Luca Ragagnin (Foto da LuciaLibri.it)
In questo odore stantio di nebbia, umido, sussurri e sospetti, Dafne e Ciaccio saranno proprio i più puri, coloro che non rinunciano al godimento e che, proprio per questo, si porteranno addosso una lettera scarlatta. Il marchio di chi ha tolto la pace a un luogo e a una comunità che, invece, più che di pace viveva di omertà, di desideri repressi, di gelosie striscianti e di aspirazioni sepolte.
Sepolte in quella terra che, nel sottosuolo è più pulita e autentica di quanto sia in superfice, come raccontano le blatte che, nel sottosuolo e negli anfratti si devono nascondere per non morire.
Pontescuro è una metafora, una denuncia leggendaria e fantastica di un’epoca e di una mentalità, di una violenza e di un regime che si preparava a distruggere, nascondere e colpevolizzare tutto ciò che poteva essere vita, gioia, ribellione, provocazione e sessualità. E il ponte è l’emblema di qualcosa che non si può e non si deve attraversare, pena scoprire che non vi è nulla di cui avere paura se non la scoperta di avere accettato un interdetto inutile, strumentale.
Pontescuro è il racconto di un mondo malato, di un mondo (e un’epoca) in cui non ci si preoccupa neanche di imbiancare i sepolcri marci di dentro perché lo stesso marciume è talmente evidente da non essere nemmeno più percepito come tale. E, per questo motivo, trova un colpevole di comodo per continuare a marcire in pace, tra menzogne e ipocrisia.
È bello, è bello davvero questo libro. Perché fa ciò che dovrebbe fare la letteratura: interrogare e non lasciare, in fondo, che vi sia certezza di speranza e redenzione.
Luca Quarin è un autore che non conoscevo, uno di quegli autori nei quali t’imbatti casualmente o per suggerimento, come nel mio caso, e ti insegnano ad averne cura. Perciò, oggi, sono felice di presentarvi questa mia scoperta.
Un romanzo nel quale cascherete e che vi trasmuterà in un tempo lontano ma che sentirete scorrere dentro le vostre vene come un imperativo al quale non potrete aver modo di sottrarvi: come l’amore che vi invade l’esistenza e potete solo sentirne la sua astinenza malgrado esso vi sia ad un soffio. Edito da Miraggi Edizioni, quella narrata è una storia che s’innesta in un passato che ha qualcosa di “così presente”. Lo so, sembra paradossale ma, mi darete ragione.
Dotato di una scrittura particolareggiante e minuziosamente architettata in una sinfonia di parole ammaestrate dal proprio direttore d’orchestra, si legge con una facilità estrema. Sarete tentati di raggiungere l’ultima pagina con una “curiositas” simile a quella di Apuleio nelle sue Metamorfosi. Benché la matrice storica del romanzo non concede alla fantasia ampi orpelli, la narrazione, diventa il fil rouge che legherà i protagonisti i vostri compagni di avventura. Compagni che vi porteranno a spasso tra luoghi non comuni capaci di scardinare quelle consapevolezze immutabili che preservate. Ho accostato le Metamorfosi a questa storia consapevole del paragone stonato: si, perché, la vera matrice portante della narrazione è ciò che sfugge.
Non aspettatevi di trovare una serenità o una stasi: è un romanzo che porta a burrascose affermazioni, a picchi di isteria e diventa scomodo. Si, perché ciò che si racconta non conosce riposo. Un moto. Un moto perpetuo.
Un romanzo, lo ammetto, ben scritto ma complesso: siamo nel 1972 e una bomba distrugge Peteano uccidendo tre carabinieri. L’incidente scatenante s’inquadra come il momento in cui i panni del lettore vengono, amabilmente, distrutti e lasciano il posto ad un’esperienza totalizzante. Ed è così che parte l’inchiesta degli inquirenti che sembra portare ad un gruppo di militanti tra cui spiccano un ragazzo e una ragazza che cercando di scampare ai carabinieri, finiscono con l’automobile nel lago di Levico.
Nel rocambolesco inseguimento l’impatto è un urlo muto ma assordante: il figlio di tre anni rimane orfano. Proprio da qui parte una assurda routine di errori e falle nel sistema giudiziario che condanna ed assolve sei giovani ma che non riesce a chiarire le posizioni che hanno avuto quei due genitori. Ma il passato, si sa, è sempre pronto a mostrarsi una Torre di Babele furente. Dopo dieci anni il caso viene riaperto come un’autopsia delle coscienze: Vincenzo Vinciguerra racconta al giudice Felice Casson i retroscena dell’attentato e le filosofie più oscure della destra eversiva degli anni settanta. In un duello tra razionalità e desiderio di chiarezza, il mistero su quei due giovani, non trova quiete.
E nel limbo delle festanti incertezze diventa chiaro che, non sempre, il passato può essere spiegato dal presente. Non sempre, il passato, sceglie di raccontarsi a chi ha bisogno di risposte.
Sabato 27 giugno, alle ore 21, la libreria albese sarà invece in diretta dal cortile interno della libreria con gli amici di Miraggi Edizioni per l’evento Mira-Book, in collaborazione con Book Advisor, per la presentazione dell’ultimo romanzo di Luca Quarin “Di sangue e di ferro”. I partecipanti alle dirette potranno richiedere di ricevere una copia con dedica autografa dell’autore da ritirare direttamente in libreria.
Luca Quarin, Di sangue e di ferro, l’interrogatore della storia
Sono i fatti a nascondere la verità storica e forse, senza tanti preamboli, possiamo affermare che la verità sta ai margini dove il messaggero addetto al racconto e all’epica racconta ciò che non è narrabile. Lo scrittore dice infatti la verità mentendo, attraverso l’uso della menzogna.
A parlarci di questo, in piena libertà, è Luca Quarin, autore friulano, da sempre narratore di verità scomode che molto chiaro ha il ruolo dello scrittore: il privilegiato della narrazione.
L’occasione dell’intervista che segue, che vuole essere una conversazione senza pretese tra di noi, è motivo di poter discutere del suo ultimo romanzo Di sangue e di ferro (Miraggi Edizioni, 2020) https://www.miraggiedizioni.it/prodotto/di-ferro-e-di-sangue/, una storia particolare sul destino della nostra Italia, un viaggio tra i misteri, su ciò che non si può dire o semplicemente riferire.
Luca che da sempre si occupa come narratore di questo, già conosciuto come scrittore di racconti e al pubblico con il suo precedente romanzo Il battito oscuro del mondo ( Autori Riuniti, 2017), e attraverso le pagine della sua ultima fatica letteraria si incorona lui stesso mediante la tecnica della finta-fiction.
Il narratore di fatto facendo narrazione, sviluppando una certa epica nei fatti che racconta, diventa un cronista estraneo alla storia e adottando un comportamento distaccato in lei si immedesima, si inabissa come in un oceano.
Che cosa è la letteratura? Cosa la storia? L’interrogativo forse non trova risposta. E allora forse possiamo solo soffermarci a fare supposizioni, a teorizzare sull’impossibile come Quarin ci suggerisce.
Intervista a cura di Iuri Lombardi
YAWP: “Di Sangue e di Ferro è un romanzo sulla storia nera d’Italia, in particolare vista dal Friuli, apparentemente una terra di confine, ricca di storia, linguisticamente interessante ma che pare nascondere qualcosa. Ci potresti raccontare come nasce questa idea e soprattutto quale è stato il ruolo del Friuli nella storia d’Italia?”
LUCA QUARIN : “Per quanto riguarda il Friuli direi che è proprio il termine confine ad averne scandito la sua storia e anche la mia storia, il suo essere al margine delle vicende storiche e il mio essere al margine di quello che accadeva nel mondo. Essere al margine è sempre una condizione privilegiata, vuoi perché nessuno si interessa a te e sei libero di percorrere le strade che ti interessano, vuoi perché puoi osservare le cose da lontano, vuoi perché gli eventi attraversano i margini ma non si fermano mai sui margini, finiscono sempre per svolgersi altrove, vuoi perché hai l’impressione di dover colmare la distanza che ti separa dal cuore della Storia e di conseguenza ti muovi continuamente, oscillando al di qua e al di la del confine, come il protagonista del mio romanzo rispetto alle vicende del suo passato o come il Quarin che scrive rispetto al Quarin che viene scritto”.
YAWP: “Un altro interessante aspetto che emerge dal tuo romanzo è che i fatti nascondono la verità. Intendo non la verità spicciola, ma la grande verità, il segreto della storia, la dinamica che si cela dietro a certi eventi, e questo porta a formulare un nuovo romanzo, o meglio un inedito, per certi versi, genere, quello della finta fiction. Qual è quindi l’esigenza di uno scrittore: ricostruire i fatti – sapendo di mentire- o dire la verità?”
L.Q: “Manganelli sosteneva che non ci fosse altra possibilità di dire la verità se non attraverso l’uso della menzogna. Auden invece faceva un discorso diverso e diceva che ci sono due momenti in cui l’autore dialoga con il proprio libro. Mentre lo sta scrivendo, lo scrittore interroga il suo progetto come la madre interroga il bambino che cresce nella sua pancia. Si domanda e gli domanda come sarà, che cosa gli piacerebbe diventare, che cosa faranno insieme. Il libro e il bambino sono pura possibilità, pura ipotesi. Né uno né l’altro posseggono una risposta. Quando ha finito di scrivere il romanzo, l’autore può continuare questo dialogo soltanto con sé stesso. Il libro ormai è nelle mani del lettore, non risponde più a lui, come il bambino è nelle mani del mondo e non risponde più alla madre (le madri ci mettono un po’ a comprenderlo e spesso anche gli scrittori ci mettono un po’ a comprenderlo). Lo scrittore, se è onesto, deve chiedersi che cosa ha fatto bene e che cosa ha fatto male, che cosa potrebbe migliorare in futuro, che cosa ha imparato scrivendo quel libro, come si colloca quel lavoro all’interno della sua opera e che rapporto ha con quello che lo precede e con quello che lo segue. Deve prendere le distanze. Deve allontanarsi. Si tratta, con tutta evidenza, dell’esatto contrario di quanto avviene nel mio romanzo. Qui la scrittura e la riflessione sulla scrittura si intersecano e si sostituiscono (come il vero Quarin e il finto Quarin, come la verità e la finzione in generale), oppure si escludono, dipende dal punto di vista, comunque sempre coesistono, in una forma che è tipicamente modernista ma anche postmoderna. Il romanzo scompare parlando di sé stesso e lascia spazio al vero protagonista della scrittura, che è sempre il silenzio”.
YAWP: “A questo punto ti chiedo: ma la storia esiste oppure è solo un’invenzione degli storici?”
L.Q: “Ho l’impressione che la Storia sia una necessità umana di dare ordine e soprattutto significato alle macerie che i fatti lasciano sempre alle loro spalle. Dunque la Storia senza dubbio esiste come necessità ed esiste come pratica, anche quotidiana. Si tratta di una pratica laboriosa, molto artigianale, per cucire insieme i fatti all’interno di un sistema semantico che comunemente chiamiamo struttura narrativa, che è l’unico modo che conosciamo per continuare ad attraversare le ombre che formano la realtà. Un filo di Arianna che apparentemente ci impedisce di perderci nel nulla ma che probabilmente ci trattiene all’interno del labirinto da cui cerchiamo continuamente di evadere”.
YAWP: “La mia sensazione, leggendo il tuo romanzo, è che la storia può esistere solo attraverso un discorso di avanzamento dell’epica; voglio dire dal momento che faccio epica probabilmente faccio la storia. Ma se così fosse quale è il senso del divenire?”
L.Q: “Ho dei dubbi sull’idea di progresso illimitato nata con l’illuminismo e diventata il dogma del capitalismo neoliberista. Non vorrei che anche il divenire finisse per sottostare all’effetto Flynn, secondo cui i figli devono essere sempre più intelligenti dei genitori, altrimenti sono destinati a soccombere. Nelle ultime pagine del romanzo ho ripreso il ragionamento che Borges fa sull’idea della storia di Cervantes, attraverso il personaggio di Pierre Menard, usando le medesime parole del grande autore spagnolo, il padre assoluto del romanzo. Stando a Cervantes la storia è uno strumento per interpretare la realtà, stando a Borges la storia è uno strumento per riprodurre la realtà”.
YAWP: “D’altronde gli storici nascondono la verità e forse gli unici a svelarla, potenziali messaggeri, sono gli scrittori e il popolo che è costretto a subire certi eventi ma che essendo folla non riesce a spiegarli. Gli storici hanno nascosto per lungo tempo la questione della P2 in Italia, i depistaggi di certe trame occulte, per non dire atlantiche, a cominciare da quella fantomatica (e mi scuso se sembro poco patriottico in questo) unità della nazione dove la questione del brigantaggio non viene citata per ragioni politiche (una guerra civile di tanti morti e che la letteratura ne ha parlato attraverso Alianello, Nigro ecc..). Ora i fatti vengono nascosti, secondo te, per ragioni politiche o perché il fatto di per sé nasconde segreti?”
L.Q: “I fatti mi sembrano sempre inspiegabili. Sono come la carcassa di un animale abbandonato sul bordo della strada. Non si sa chi o che cosa lo abbia ucciso né per quale ragione. E così ognuno è libero di cibarsene come preferisce. Ecco, in questo naturale cibarsi dei fatti ci stanno le manipolazioni della politica, quelle della storia, quelle dei media, quelle delle persone comuni. Ognuno ha bisogno di una storia che sia coerente con la sua cultura e ognuno costruisce la propria storia a partire da un brandello della carcassa, strappandolo dal corpo degli eventi e innestandolo nel corpo del racconto. Dunque, con il trascorrere del tempo, la carcassa si dissolve sempre di più fino a scomparire, lasciando dietro di sé soltanto un alone iridescente che è quello della memoria”.
YAWP: “In Italia chi fa letteratura e non prodotti editoriali rimane al margine, costretto quindi a rivolgersi a un gruppo, a una élite e il tuo romanzo è alta letteratura. Ma questo decadimento culturale- quasi da basso impero, da storia quasi da non raccontare– come cantavano alcuni versi di De André, a cosa è dovuto?
L.Q: “Mi sembra una questione che ha molto a che fare con l’evaporazione delle élite, che è un punto cieco del nuovo millennio ma direi che è anche un punto cieco della cultura illuminista. Questo scollamento tra élite e popolo ha trasformato probabilmente le élite in una oligarchia molto ristretta e il popolo in una massa silenziosa e omogenea. Il romanzo mi sembra sia rimasto stritolato in questa disinter-mediazione, passando da strumento per comprendere la realtà a strumento per sostituire la realtà. Uno vale uno. Lo scrittore non può più mettersi in mezzo tra il lettore e la realtà, deve soltanto riprodurla attraverso una storia. Di conseguenza è terminata l’epoca del modernismo e delle avanguardie e si è restaurato il romanzo ottocentesco, quel viaggio dell’eroe di Vogler che è diventata l’ossatura delle “storie” tanto amate dalla grande editoria”.
YAWP: “Gli editori sono al servizio delle lobby e loro stessi – parlo della grande editoria- sono il potere, ma non credi che a questi detentori del potere manchi un coraggio culturale?”
L.Q: “Il coraggio manca sempre, purtroppo. Manca nella società, manca nel mercato, manca nelle relazioni umane. Il coraggio ha a che fare con il nuovo, con ciò che ancora non esiste, con ciò che si trova nell’oscurità e potrebbe uscire dal buio avventandosi su di noi. Tieni conto che il tempo di big data, il nostro tempo, è il tempo della reiterazione, dove i dati del passato servono per costruire le forme del futuro, un futuro analogo al passato ma con un’altra pelle. Anche l’editoria partecipa a questo grande spettacolo consolatorio, facendo un enorme sforzo per realizzare abiti nuovi sopra corpi che invece sono vecchi, incapaci di tramontare.Detto questo, direi che si tratta anche di valutare quale sistema narrativo debba utilizzare il romanzo contemporaneo per assemblare le informazioni in un flusso logico che rappresenti l’esperienza e allo stesso tempo la superi, costruendo un ponte tra quello che è stato e quello che sarà. Ne sapeva qualcosa Proust che ha sempre posto l’accento sui tempi verbali, utilizzando il passato prossimo per confinare il tempo perduto in un spazio lontano ma al tempo stesso accessibile, un’idea brillante per includere sia il trascorrere del tempo che il suo essere perpetuo”.
YAWP: “Tu vieni da una terra particolare, una volta, sino a pochi decenni fa era considerata il meridione del nord; una regione storica che dalla Carnia scende al mare, divisa da un fiume, il Tagliamento, e che ha partorito grandi geni come Pasolini, Sgorlon, in Friuli nasce la Gladio; ci parli di questo evento storico?”
L.Q: “Gladio è stata un’organizzazione segreta nata negli anni cinquanta, su sollecitazione della Cia e dei servizi segreti delle nazioni atlantiche, per contrastare una possibile invasione nell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica e dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia. La sua esistenza è rimasta segreta fino al 1984 quando Vincenzo Vinciguerra, nell’ambito delle rivelazioni sulla strage di Peteano, ha svelato per la prima volta il ruolo di questa organizzazione e i suoi meccanismi di funzionamento. Senza entrare nei dettagli di una vicenda di enorme interesse che suggerisco a tutti quanti di approfondire, direi che la storia di Gladio e la storia del Friuli si sono talmente intrecciate nel dopoguerra, proprio per il discorso sul confine che facevamo prima, da dover essere sempre raccontate insieme. Nel mio romanzo i personaggi si muovono proprio su quel palcoscenico, ovviamente in una dimensione finzionale e non giornalistica, per raccontare un frammento di quella vicenda”.
YAWP: “Alla fine si potrebbe dire ancora cose, fare nomi che non faccio, nascondo la verità come puoi intuire. Tuttavia, che differenza fa tra la narrazione e la descrizione?”
L.Q: “Ho l’impressione che la “descrizione” abbia ancora a che fare con il Novecento e continui nel tentativo di guardare da fuori la realtà, cercando di raccontarla, mentre la “narrazione” mi pare più incardinata nel presente, anche in virtù del ritorno della scrittura attraverso i media, e dunque sia un po’ più indistinguibile dalla realtà, visto che contribuisce a generarla. Ecco, questa impossibilità di separare la realtà dall’immaginazione che l’ha generata mi pare una interessante forma di verità”.
YAWP: “Quali sono i tuoi progetti futuri?”
L.Q: “Mi mancano pochi capitoli per terminare una storia ambientata di nuovo negli Stati Uniti, come il mio romanzo d’esordio, che racconta di un guru della robotica che nel 2011 scompare improvvisamente insieme alla sua famiglia e di una capanna che nel 2013 viene risparmiata da un enorme incendio che devasta lo Stanislaus National Park. La storia si conclude nel Pando, detto anche “gigante tremante”, l’organismo vivente più grande e più antico del mondo, che si trova nella foresta nazionale di Fishlake, in Utah. Il protagonista è un giovanissimo giornalista italiano, Ferrante Savorgnano, che inseguendo un’adorabile attivista della Rainforest Alliance, cerca di fare luce su entrambi i misteri”.
È la storia di un padre lontano dall’essere perfetto e che porta invece con sé una discreta summa di manchevolezze: latinista responsabile della realizzazione di convegni attesi e partecipati ma avversati dal piccolo politico di turno, fragile, inattuale insegnante promotore di scelte incomprese dai suoi studenti, il principale protagonista di Quando i padri camminavano nel vuoto è un uomo che negli anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gode di locale, limitatissima fama.
Gode anche però delle grazie di Ava, giovane donna di servizio che fa girare teste a uomini di ogni età, con cui usciva dalla sua cupezza, dalla sua infelicità sfilacciata.
Innamorato a suo modo pure della moglie, il professore cerca di mantenere salda la rotta della sua numerosa famiglia salvandosi la faccia agli occhi del mondo e a quelli straordinariamente attenti, indagatori, del figlio bambino, colui che narra la sua vicenda (e così facendo anche la propria) e che per lui tesserà un elogio di pietas e tenerezza che stupisce e commuove.
Lo sguardo del figlio nel farsi uomo coglie appieno lo smarrimento della generazione appena dopo il secondo conflitto bellico, quella con in mano le possibilità di un futuro da costruire ab ovo talvolta sprecate: un senso di spaesamento, sconfitta ineradicabile, sensazione di assenza di definizione di ruolo – tragicamente attuali – che chi narra già da bambino fiuta feroce.
Ogni tanto mi prendeva la voglia di non lottare più. Ascoltavo i grandi parlare. Dicevano sempre che il destino era così e così, che era scritto nel Grande Rotolo. Ogni tanto facevo il tifo per mio padre. Speravo che tenesse duro, che il destino in piena non se lo portasse via. Mi sembrava che a volte non avesse più voglia di lottare per uscire dalla corrente, ma che lottava invece per rimanerci a tutti i costi. Una grande nuotata collettiva, verso la foce del fiume. Mi immaginavo dove portasse il fiume. Il destino era questo fiume in cui ti immergevi e poi ti piaceva farti portare via, era bellissimo e irresistibile. Anch’io avrei voluto, purché con mio padre. Ma mio padre non si decideva, avrebbe voluto uscire dal fiume e restarci dentro contemporaneamente. Faceva un mucchio di cose strambe, che erano contemporaneamente di due segni opposti. Le faceva non solo per il suo dolore congenito, ma anche perché un pezzo della sua natura era anarchica. Ma contemporaneamente perché la sua natura non era abbastanza anarchica. Allora era fuori dalle righe sia quando faceva l’anarchico, sia quando non lo faceva.
Quando i padri camminavano nel vuoto, segnalato al Premio Calvino dal comitato di lettura con un altro titolo, I vivi e i morti, ora giustamente riproposto nell’accurata edizione di Miraggi, Collana Scafiblù, è un romanzo di sconfitta e resistenza, battute d’arresto, cadute, scelte esistenziali e sentimentali che si ripeteranno a specchio, nonostante tutto, anche nelle generazioni a venire, quelle che vivranno in periodi di maggiore saldezza.
Piergianni Curti, laureato in fisica, specializzato in didattica della matematica, dal nome al contrario proprio come il protagonista del romanzo, traccia con grande efficacia la storia di un padre naturale e di altri padri che il figlio-voce narrante ricerca per suo puntello, per non camminare nel vuoto, appunto:padriputativi, figure genitoriali di passaggio, che entrano ed escono – molto ben definiti caratterialmente – per mille ragioni dalla vita di questa famiglia raccontata con ironia.
Un’ironia efficace e benigna, il tratto più significativo di quest’opera, che è romanzo di formazione ma soprattutto di individuazionee tessituracoesa di frammenti, da cui usciranno infine non una, ma due figure difficili da dimenticare, poetiche, piene d’amore.
Nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri. Gli inquirenti sospettano alcuni militanti di Lotta Continua. Due di loro, un ragazzo e una ragazza che frequentano la facoltà di sociologia a Trento, finiscono con l’automobile nel lago di Levico, cercando di sfuggire all’arresto. Il figlio di tre anni rimane orfano. Alcuni mesi dopo vengono arrestati sei balordi goriziani che non c’entrano nulla con l’attentato. Poi vengono scarcerati. Per dieci anni le indagini brancolano nel buio, depistate dagli inquirenti che le conducono. Che ruolo hanno avuto i genitori del piccolo? E i nonni che si sono presi cura di lui? Sono stati vittime o sono stati colpevoli? Il velo comincia a sollevarsi nel 1986, quando Vincenzo Vinciguerra racconta al giudice Felice Casson i retroscena dell’attentato e le trame più oscure della destra eversiva degli anni settanta. Ma purtroppo non basta. Il mistero della morte dei due ragazzi non riesce a squarciarsi. Un romanzo sulle oscurità della Storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, anche per quanto riguarda le vicende personali. Una storia che accende la luce sulle mille menzogne che formano la nostra identità, su tutto quello che abbiamo bisogno di raccontarci e di farci raccontare per proteggerci dalla forza travolgente della realtà.
Il secondo romanzo di luca Quarin, Di sangue e di ferro, Miraggi scafiblu Edizioni, non può deludere le aspettative di chi ha amato il suo esordio letterario, avvenuto tre anni fa con Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, Edizioni. Con questo libro l’autore riprende e ricuce alcune tematiche e riflessioni di fondo che apparivano nel suo precedente romanzo. Penso in particolare alla dicotomia tra la razionalità e l’impulso di morte (un’oscura volontà di potenza?) che accompagna il dispiegamento sia individuale sia storico dell’Occidente. Il protagonista della vicenda è Andrea Ferro, un cinquantenne precario che si arrangia facendo l’assistente universitario a contratto ed eseguendo cover di cantanti country americani in improbabili locali torinesi. Lo spartiacque, quella frattura che inevitabilmente incrina l’esistenza adolescenziale di Ferro è rappresentata dall’improvviso aggravarsi delle condizioni di sua nonna Antonia. Il protagonista del romanzo torna a Udine, sua terra di origine, per occuparsi della donna che lo ha allevato. Attraverso le sue confessioni e reticenze, grazie anche agli enigmatici interventi di altre figure emblematiche, Ferro ricostruisce alcuni tasselli mancanti del suo passato, laddove la storia individuale finisce per coincidere con le pagine più oscure della storia d’Italia nell’epoca del terrorismo rosso e nero. Che cosa lega la morte dei genitori di Ferro, avvenuta in seguito a un misterioso incidente stradale, alla strage di Peteano? Che ruolo hanno avuto i nonni, in quanto esponenti dell’estrema destra cittadina, nelle vicende di quegli anni? Perché il protagonista viene perseguitato da un misterioso autore che aspira a pubblicare per la casa editrice con cui collabora? E che fine ha fatto Silvia, l’eterna fidanzata di Ferro, che spesso lo abbandona e ama sparire nel nulla? Di Sangue e di ferro e un’opera che già dal titolo fa presagire il carattere dicotomico che soggiace alla sua elaborazione. Per cercare di comprendere la direzione verso cui muove la sua esistenza, il protagonista deve riuscire a comprendere la differenza tra realtà e verità; tra i fatti intesi come narrazione deformata dai sentimenti della memoria e i dati oggettivi che la storia dispone sul grande tavolo dell’interpretazione intersoggettiva. Che rapporto c’è fra la storia individuale e la storia di una nazione? È possibile decodificare la misteriosa e oscura volontà che muove il divenire dell’uomo e dei popoli? Si possono ancora scrivere romanzi onesti in cui non si raccontano solo i fatti riconfigurati da una memoria fallace, ma in cui sia possibile illuminare la forza cieca che guida da sempre le contraddizioni dell’Occidente? A voi la risposta. Non dovete far altro che tuffarvi nella lettura di questo romanzo sublime, anche grazie all’eleganza di uno stile ipnotico e travolgente.
“Una cosa è tua quando sai cos’è, e sai cos’è quando la racconti a qualcuno.” Quanto influscono le narrazioni sulla costruzione dei nostri ricordi, del nostro passato e della nostra identità? Quanto influsce la narrazione sulla costruzione dei ricordi, del passato e della identità di un personaggio di un romanzo? Chi racconta, quanta e quale verità consegna al suo interlocutore? E questa verità quanto aderisce alla realtà? Andrea Ferro, protagonista di questo romanzo, si trova a camminare tra le strade del suo passato, di un passato che non ha mai conosciuto fino in fondo e da cui è fuggito prima che le domande diventassero insopportabili. Ferro è cresciuto con le risposte che ha deciso di farsi bastare, su quelle risposte ha dato direzione alla sua vita e alla sua identità. L’aggravamento delle condizioni di salute della nonna lo riporta a Udine, dove le domande si risvegliano e dove iniziano ad arrivare risposte diverse e da più direzioni. Andrea cerca di unire i puntini e di dare un contorno definito al suo passato attraverso i racconti delle persone che ritrova a Udine, ma fino alla fine gli sfugge la dimensione di quella verità che sta cercando. La storia della famiglia di Andrea, la storia di un attentato per cui non sono mai stati trovati i veri colpevoli, la storia del nostro paese dagli anni ’70 ad oggi, tutte queste storie sono appunto “storie”, narrazioni, sono lo specchio deformante della realtà che restituisce verità possibili, tante quante sono le narrazioni possibili. La riflessione è densa, i rimandi letterari e filosofici sono tanti, e ricercati, ma il romanzo riesce con un ottimo ritmo a far convergere i fili verso il loro finale, verso l’origine del racconto. In fondo le storie e la Storia, sono racconti, come i romanzi, e non è detto che realtà e verità coincidano.
Di sangue e di ferro è un romanzo che usa ripetutamente la myse en abyme, talvolta anche come coupe de théâtre, per accendere la miccia narrativa che fa detonatore alle altre storie, circuitando il lettore dal particolare all’universale e viceversa. Questa modalità permette all’autore di ragionare sul senso della Storia e delle storie e davvero non mancano i riferimenti, sempre appropriati, alla riflessione e rilettura politica che prende il via a partire da un tragico evento concreto: la strage di Peteano. Però il romanzo batte più strade, oltre a quella maestra. E, per altre vie, non secondarie, ci porta all’interno delle sue fondamenta. Mi spiego: Quarin srotola le pieghe della narrazione, ci fa entrare nel meccanismo – quasi una nouvelle vague della scrittura – del romanzo in sé e per sé, facendo la spola tra realtà e finzione in un continuo gioco di specchi. Orbene, sappiamo che i protagonisti dei romanzi, per quanto autobiografici, vivono all’interno del romanzo. Quarin sfida la legge della gravità narrativa e li sposta al di là della scena in cui vivono. L’effetto è singolare. Ma più che l’effetto, è senz’altro la inequivocabile dichiarazione d’amore che Quarin fa alla letteratura quella che infine trionfa, sul sangue e su ferro.
“Ricordava davvero qualcosa?” si chiede il protagonista di questo romanzo. Andrea Ferro è un uomo sfocato la cui vita procede su piani paralleli. Andrea Ferro è ricercatore universitario sotto il giogo del professore ordinario, è lettore presso la casa editrice Editori Riuniti, suona in un Pub, fa da balia all’ex fidanzata, ma Ferro ha, soprattutto, un passato. La storia di Andrea Ferro si mescola con la Storia d’Italia. Il romanzo raccoglie testimonianze storiche sulla lotta tra destra e sinistra, tra Lotta Continua, le Brigate Rosse, Gladio, l’eversione nera e l’epoca dei depistaggi, senza dimenticare gli spettri della Decima Flottiglia Mas. Quello di Luca Quarin è un romanzo che si autoalimenta a mano a mano che procediamo con la lettura. È una camminata nelle terre dell’autofiction, ma allo stesso tempo sembra quasi prenderne le distanze, come se l’autofiction fosse una scappatoia o, più semplicemente un mezzo d’indagine che non può dare i risultati desiderati. Questo è un libro che pone molte domande. Alcune delle quali spettano al lettore. Ad esempio, il quesito più intrigante che ci si possa fare dopo aver letto “di sangue e di ferro” ha a che fare con la veridicità delle fonti riportate. Non possiamo essere certi che tutto ciò che è stato citato sotto forma di contributo storico corrisponda al vero. Possiamo essere sicuri però che tutto ciò che è inserito in questo romanzo ha l’unico scopo di rispondere alla domanda iniziale “Ricordava davvero qualcosa?”
Cos’è di sangue e di ferro di Luca Quarin? Autofiction come strumento per diffidare della grande Storia, e affermare che è “vera” solo la sua narrazione? Un romanzo sul romanzo, volto a saggiarne la tenuta delle regole nel postmoderno? Una contaminazione di generi letterari disseminata di interrogativi filosofici? Tanti sono i piani di lettura di questo romanzo. Che però resta solido nel suo ancoraggio contenutistico: scandagliare l’eversione nera in uno dei suoi più inquietanti episodi, la strage di Peteano (31 maggio 1972). Ferro, il protagonista, si interroga sulle responsabilità di suoi familiari nell’intreccio perverso fra apparati dello Stato, logge massoniche, organizzazioni neofasciste che hanno depistato per anni le indagini, imboccando la “pista rossa” nel tentativo di saldare l’autobomba di Peteano all’omicidio Calabresi (17 maggio). Sono i miasmi di questa putrida storia che avvolgono i protagonisti del romanzo, è inseguendo la sua trama che l’autofiction rimane tesa nello sforzo di avvicinarsi a una verità. Una verità che brucia, forse non risana, forse non esiste neppure, forse è solo l’eliminazione di qualche errore. Tuttavia la sua ricerca consente al narratore di prolungare la vita indagando i misteri della Storia attraverso le storie dei protagonisti, grandi e piccoli, con uno stile che si fa solido, teso, scevro da compiacimenti estetizzanti. Ferro e i suoi congiunti vengono strappati alla Storia che sospinge ai margini del nulla le piccole storie come la sua. Quella Storia che assegna alle piccole storie la sorte di essere narrate, mai di narrare. Una storia che Ferro vuole dimenticare, perché “dimenticare è la nostra unica libertà” [pag.151]. Ma dimenticare non per rimuovere il passato oscuro: dimenticare come fanno le esistenze fortificate, come fa la natura “che ricomincia a ogni istante i misteri dei suoi parti infaticabili” (Balzac). In questo senso “di sangue e di ferro” prolunga la vita del lettore. E in questo senso si può dire che “lo scrittore è il profeta che guarda al passato”.
Il romanzo di Luca Quarin e’ come una matrioska che cela al suo interno almeno altri due romanzi ed altrettanti coprotagonisti: Andrea Ferro orfano cresciuto dai nonni legati a movimenti eversivi della destra, Luca Quarin scrittore in cerca di riconoscimento e Vincenzo Vinciguerra autore della strage di Peteano tutti indissolubilmente legati tra loro. Niente e’ pero’ come sembra a prima vista e bisogna arrivare alla fine della narrazione per toccare con mano tutti i depistaggi subiti dall’inchiesta sul fatto di sangue e nel contempo dalla memoria su ciò che ricordiamo e su come ricordiamo. Un romanzo molto profondo da leggere con attenzione per i quesiti che inevitabilmente ognuno di noi si pone.
Un consiglio di lettura intenso, che non consente tregua allo sguardo del lettore. Nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri. Depistaggi, indagini, memoria con cui fare i conti. Un romanzo sulle oscurità della Storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, anche per quanto riguarda le vicende personali.
Un libro poderoso, di grande qualità letteraria. Un romanzo matrioska, di quelli che al loro interno contengono altre storie in un intreccio stretto e inaspettato. La prosa è notevole specie nelle parti dedicate al protagonista Andrea, giovane insegnante che accorre non appena riceve la chiamata da un’infermiera, che avvisa che la nonna si sta aggravando. Quarin è un autore straordinario, che lascia senza fiato. Nonostante io prediliga le scritture asciutte devo dire che questo è un romanzo che ti cattura e che regala delle pagine indimenticabili. Quarin non dà tregua al lettore, lo trascina dentro la vicenda, fa capire che si tratta di una storia vera, fa saltare i confini fra fiction e autofiction. La cronaca racconta cne nel 1972 esplode una bomba a Peteano, vicino a Gorizia, uccidendo tre carabinieri. Depistaggi, indagini, memoria con cui fare i conti. Quarin scrive un romanzo sulle oscurità della storia e sull’impossibilità di ricucire il presente con il passato, la vicenda personale è impastata di sangue e di ferro. La verità è un puzzle da ricostruire con fatica e a caro prezzo.
A meno di un mese dalle elezioni che avevano assegnato la guida del paese a un nuovo esecutivo presieduto da Giulio Andreotti e a due settimane dall’omicidio Calabresi, il 31 maggio 1972, a Peteano vicino a Gorizia, una bomba esplode in una Fiat500 sulle rive dell’Isonzo uccidendo tre dei cinque carabinieri intervenuti in seguito a una telefonata anonima. Si brancola nel buio: da principio si sospetta una coppia militante di Lotta Continua che muore in un incidente automobilistico lasciando un figlio di tre anni. Segue un decennio di indagini fumose depistate dagli stessi inquirenti, ed è solo nel 1986 che si fa luce quando il reo confesso Vincenzo Vinciguerra svela i retroscena della strage e rivela le trame oscure della destra eversiva degli anni Settanta. Ripercorre le tappe di questa triste pagina di cronaca italiana, il romanzo “Di sangue e di ferro” che Luca Quarin ha appena pubblicato nella collana Scafiblù per la casa editrice Miraggi, ma racconta anche di Ferro, vittima di un intrigo politico di cui non conosce gli ingranaggi, protagonista di una storia nella Storia che racconta al lettore la genesi stessa del romanzo, facendo luce sulle mille menzogne che raccontiamo a noi stessi per costruire la nostra identità, e quelle che ci raccontano cui vogliamo credere per proteggerci dalla forza travolgente della realtà.
“Di sangue e di ferro” di Luca Quarin affronta le vicende della destra eversiva degli anni Settanta. «Andrea è costretto a misurarsi con le proprie origini».
Dieci anni per Miraggi edizioni. La casa editrice torinese che ha curato nel dettaglio diverse collane e si è imposta all’attenzione mondiale per aver tradotto per la prima volta in Italia personaggi del calibro di Habral, vanta nella sua squadra diversi siciliani, non ultimi, Daniele Zito o Angelo Orlando Meloni. Il genetliaco cade il 15 maggio e i tre fondatori, Fabio Mendolicchio, Alessandro De Vito e Davide Reina, hanno puntato su un countdown per giungere il 15 nel gruppo facebook del del blog siculo “Letto, riletto, recensito”, proponendo una diretta alle h. 18:00. In uscita il 30 marzo era “Di sangue e di ferro”, romanzo che narra di Andrea che un amico editore gli sottopone uno “strano romanzo”, che con il passare dei giorni si intrufola sempre di più nella sua vita. Da lì la discesa di Andrea in un tempo che si è sempre sforzato di dimenticare attraverso alcune vicende essenziali, dove lo stesso autore diventa personaggio.
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Quali sono le vicende?
«Andrea è costretto a misurarsi con le sue origini, prima che queste scompaiano definitivamente. Le vicende sono quelle della destra eversiva degli anni settanta».
E lo strano romanzo?
«Lo “strano romanzo” e la conversazione con il suo autore lo incalzano sempre di più: tenta ad esempio di fare luce sulla morte dei propri genitori e sulle responsabilità storiche dei suoi nonni».
Da cosa nasce l’idea e perché questo intreccio di temi che convergono all’identità?
«L’idea nasce a Treviso, a un corso di scrittura tenuto dall’amica, Bruna Graziani, che ha sollecitato i partecipanti a scrivere un testo su una loro esperienza. Una ragazza ha raccontato un momento davvero doloroso della sua vita, è stato lì che ho cominciato a riflettere sul rapporto che esiste tra gli eventi della nostra vita e il modo con cui li raccontiamo agli altri. Sull’identità, può capitare che il desiderio di “raccontare una buona storia”, che ciascuno di noi ha provato di fronte alla domanda di qualcun altro, prevalga su una “verità” di cui ci sfuggono i contorni oppure che vogliamo nascondere al nostro interlocutore, per debolezza, per colpa, per il dolore che porta dentro di sé, modificando addirittura i nostri ricordi, visto che, come diceva Freud, rimaniamo estranei anche a noi stessi».
Quali sono in genere i temi da cui attingi per scrivere?
Luca Quarin
«Mi interessa soprattutto quello che accade attorno a me. La politica, l’economia, la scienza, la filosofia. Ovviamente moltissimo la letteratura. Mi interessa pochissimo, invece, quello che accade a me stesso e quello che ha a che fare con la mia esperienza personale. Anzi, di solito cerco di evitarlo come la peste. Se mi viene in mente qualcosa che ho vissuto o qualche persona che ho conosciuto, scarto l’idea senza indugiare un attimo. Credo molto nell’invenzione, piuttosto, o se preferisci nella reinvenzione, anche se la polemica mi sembra assolutamente inutile. Inventare tutto o non inventare niente mi pare che non renda giustizia ai meccanismi con cui il linguaggio rigenera tutto quello che ingoia».
E il tema di “Di sangue e di ferro”?
«Da un po’ di tempo ho l’impressione che nel nostro paese stia riemergendo un’idea di destra irrazionale, mistica, metafisica, che ha trovato terreno fertile nell’azione disgregatrice che tecnologie e globalizzazione hanno compiuto sui soggetti e sulle strutture della società e che ricorda molto il fascismo di Gentile e di Croce. La progressiva messa in ombra delle corporazioni (i partiti, i sindacati, et alii), tanto per fare un esempio, ha lasciato spazio a un bisogno indefinito di comunità che adesso, si soddisfa in un pensiero nazionalista e sovranista che travalica i limiti dell’individuo e lo protegge dagli assalti della modernità. Qualcosa di simile alla promessa fatta dallo stato islamico, per intenderci.
Nel suo complesso, però, mi sembra un’operazione abbastanza disperata che cerca di aggrapparsi ad alcuni valori che sono già stati asfaltati dalla storia».
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Dunque qual è la differenza tra realtà e finzione letteraria?
«Dai tempi di Plutarco è noto che “chi inganna è più onesto di chi non inganna e chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare”. Questo discorso, se da un lato riporta al patto tra scrittore e lettore, e quindi a quella “sospensione volontaria dell’incredulità” di cui parlava Coleridge, dall’altro lato rinvia alla consapevolezza del proprio ruolo, che ci sia o meno».
Miraggi, covid e i 10 anni di storia…
«… più l’intervista per il più noto quotidiano delle tue parti: felicissimo!».
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