Dopo aver intervistato Mattioli 1885, Astarte edizioni e Prehistorica Edizioni, Free Zone Magazine continua la serie di interviste a Editori Indipendenti perché riteniamo che il loro ruolo nel campo dell’editoria sia da sempre di vitale importanza. Ciò per il lavoro di accurata ricerca, da loro svolto, nell’individuazione di autori e libri di particolare interesse, oltre che valore letterario, che altrimenti non troverebbero opportunità di pubblicazione da parte dei grandi editori, restando pertanto sconosciuti. Lo scopo dell’intervista verte anche su comprendere le strategie editoriali, commerciali e di comunicazione messe in atto dalle case editrici stesse per affrontare la competizione con i giganti del settore cercando di offrire un catalogo ricco di titoli di qualità e di conseguenza permettere loro di restare sul mercato. Ma come riescono ad essere attrattivi per i lettori che sempre più si stanno contraendo numericamente, mentre quelli che non abdicano al libro sono sempre più esigenti nel cercare una letteratura che sia stupefacente? Attraverso le nostre domande ai responsabili editoriali cerchiamo di comprendere meglio cosa si muove dentro queste realtà che Free Zone Magazine da sempre apprezza e a cui vuole dare sempre più visibilità.
FZM: Quando e come sono nati il vostro progetto e il relativo nome?
FM: La casa editrice è nata al Salone del Libro del 2010 ma l’idea nacque nel lontano capodanno che passammo insieme io e Alessandro De Vito, l’alcol fu complice. In realtà lui lavorava per un’altra casa editrice che sfruttava il suo apporto semi gratuito per pubblicare, io arrivavo da un corso di grafica creativa che feci con l’intento di applicare ciò che imparavo in cucina, eravamo lettori entrambi ed è partita la sfida. Sul nome facemmo un enorme lavoro di meditazione e ricerca, poi venne fuori in sintesi Miraggi, evocativo!
FZM: Qual è la linea editoriale della vostra casa editrice?
FM: Il catalogo di Miraggi per questo si è sempre contraddistinto tanto per lo stile, curato e riconoscibilissimo fin dalle copertine, che per la scelta di pubblicare libri perseguendo anche le strade meno battute. Dal 2017 abbiamo cambiato rotta aprendo una nuova linea editoriale prettamente letteraria che porta nel nome il tipo del font utilizzato: Baskerville. Quindi, oggi sono due le linee editoriali caratterizzate dal tipo di font utilizzato in cui si divide il catalogo che stiamo costruendo: Miraggi Baskerville la linea editoriale di alta qualità letteraria dedicata soprattutto alle traduzioni e non mancano gli italiani, a sua volta divisa in quattro filoni: Scafiblù, NovaVlná, Tamizdat e Janus|Giano. Miraggi Garamond la linea più pop, dedicata agli esordienti, agli autori affermati, ai saggi e ai fumetti, contenitore da sempre di innovazioni e testi sperimentali.
FZM: Quali criteri seguite nella scelta dei titoli da pubblicare?
FM: L’intento è da sempre quello di “fare” i libri che altri non fanno, quelli che ci piacerebbe trovare in libreria, e spesso non si trovano. Però sempre ricercando opere di qualità capaci di costruire un catalogo forte e in grado di resistere nel tempo.
FZM: Come mantenete un equilibrio tra la necessità di sostenibilità economica e la volontà di proporre libri di valore culturale ma meno commerciali?
FM: Ognuno di noi fa anche altro in parallelo, in modo da poter re-investire le risorse e i guadagni.
FZM: Quali sono le principali difficoltà che un editore indipendente incontra oggi nella distribuzione e nella visibilità dei propri libri?
FM: La prima difficoltà deriva dalla quantità di libri che vengono immessi nel mercato ogni giorno, superiore alle duecento copie. Una follia che perlopiù finirà al macero. Si produce per buttare via. Questo fenomeno andrebbe regolato in qualche modo e soprattutto con onestà ma ahimè, credo, rimarrà così.
FZM: Come scovate nuovi talenti letterari? Avete un metodo particolare per valutare un manoscritto?
FM: Leggendo, facendo ricerca e selezionando. Attraverso premi e suggerimenti di diversi addetti ai lavori. Diciamo che dal 2017 pubblichiamo per 3/4 traduzioni e una collana è dedicata alla letteratura ceca, perché il mio socio Alessandro De Vito è di madre ceca e quindi è stato abbastanza naturale prendere quella direzione.
FZM: Quali caratteristiche deve avere un autore affinché la vostra casa editrice decida di investire su di lui?
FM: Essere prima di tutto un lettore ma in realtà ci si accorge subito di questo elemento leggendo poche righe o poche pagine. In ogni caso deve avere una sua voce e qualità letterarie un po’ alte.
FZM: Avete mai rinunciato a pubblicare un libro che vi sembrava valido per ragioni di mercato?
FM: No, se un libro ci sembra valido, importante, urgente cerchiamo sempre di portarlo avanti.
FZM: L’intelligenza artificiale sta entrando anche nel mondo editoriale, dalla traduzione alla scrittura automatizzata. La considerate una risorsa o un rischio per il vostro lavoro?
FM: Non credo sia un problema, fa parte dell’evoluzione. Consideriamo AI uno strumento da utilizzare come tanti altri, al servizio del risultato finale, di massima qualità.
FZM: Come vedete l’evoluzione del libro cartaceo rispetto al digitale nei prossimi anni?
FM: Per noi il libro fisico è un oggetto prezioso e necessario, lo dimostriamo con la cura che mettiamo in tutte le fasi di lavorazione, dalla scelta della carta, alle grafiche, alla selezione dei testi. Ci battiamo per la dignità dei libri e per il loro diritto all’attenzione, anche a distanza dalla data di pubblicazione. Nell’era del digitale, non è un caso che i libri cartacei abbiano mantenuto il loro fascino. Crediamo che il libro di carta non morirà mai.
FZM: Come valutate l’attuale situazione del mercato? Quali sono le vostre strategie, visto che secondo indicatori si legge sempre di meno?
FM: La nostra strategia, che poi è una non strategia, si basa sulla ricerca continua e sulla selezione di testi e letture che ci piacciono e appassionano. Non ci arrendiamo all’idea di un pubblico disattento, deconcentrato, che ha bisogno di cose poco impegnative. Il nostro impegno è quello di mantenere alta l’asticella dell’attenzione e della curiosità. Negli anni ci siamo specializzati nella letteratura clandestina, ovvero le opere che venivano sottoposte a censura, a divieti, quelle che trattavano argomenti scomodi o difficili. Addirittura, abbiamo una collana dedicata alla Repubblica Ceca.
FZM: Come vi ponete di fronte al sistema di distribuzione? Librerie indipendenti, megastore, grande distribuzione, vendite online e vendite dirette, quale secondo voi è il miglior canale di vendita?
FM: Il problema della distribuzione è un tema caldo per l’editoria in generale, ma in particolare per i piccoli editori. Tutti vorremmo avere vendite da capogiro e vedere i nostri libri nelle vetrine di ogni libreria, il problema è che vengono pubblicati centinaia di libri al giorno e ovviamente i grandi distributori offrono un servizio di miglior posizionamento a seguire di costi e percentuali quasi proibitivi in un’ottica di guadagno complessivo. Bisogna tarare bene gli investimenti economici e le energie e anche effettuando una distribuzione indipendente, a volte sommando tutti i microconti insoluti delle librerie, si creano delle somme considerevoli e fare recupero crediti diventa un altro lavoro sfiancante a cui è impossibile dedicare tutte le energie necessarie. Diciamo che come tutte le cose, la soluzione sta nell’equilibrio e poi alla fine, con fatica, sudore, e tenacia, una sorta di equilibrio si trova, ma si potrebbe sicuramente fare meno fatica, se il sistema editoriale fosse più virtuoso.
FZM: Quanto sono importanti per voi le fiere di settore? Rappresentano un investimento strategico o un costo difficile da sostenere? Quali fiere considerate più utili per il vostro lavoro e perché?
FM: Le fiere sono fondamentali per l’incontro. Incontrarsi dal vivo e poter toccare con mano quello che spinge la gente ad avvicinarsi per la prima volta al nostro stand, oppure chiacchierare con chi già ci conosce o ci ha conosciuto da poco, è una delle risorse migliori di cui disponiamo per poter migliorare ogni giorno. I lettori ci raccontano cosa gli è piaciuto e cosa no e, in un reciproco scambio di fiducia e condivisione, ci si confronta e incontra. I costi delle fiere però sono proibitivi, se tutto va bene, solitamente, si riescono a coprire i costi vivi e si torna a casa con nuovi contatti e nuove idee da sviluppare.
FZM: Il costo dei libri è in continuo aumento. Qual è il vostro pensiero di fronte alla politica degli sconti? Quella applicata (per decreto) attualmente vi sta bene o siete contrari?
FM: Dobbiamo accettarla come tutti… riteniamo che non dovrebbe esserci nessuno sconto, l’unica vera legge che terrebbe conto e darebbe valore al prezzo di copertina.
FZM: Rispetto ai social network, li utilizzate oppure quale altro tipo di strategia adottate per promuovere le vostre attività? Se poteste cambiare un aspetto del mercato editoriale attuale, quale sarebbe?
FM: Noi mettiamo in atto qualsiasi strumento per far conoscere il nostro lavoro, il nostro catalogo. Certo che utilizziamo i social network e continuiamo a fare incontri, organizzare tour, inventiamo nuovi modi come per esempio L’IBRIdaCENA che organizzo io (essendo cuoco da oltre trent’anni) che trasforma le librerie in ristorante per una sera.
FZM: Che rapporto avete con le altre case editrici? Secondo voi è possibile “fare rete” tra editori?
FM: Con gli altri editori abbiamo ottimi rapporti ma in 15 anni abbiamo partecipato ad ogni forma di associazionismo di categoria e finora posso dire che tutte le iniziative sono fallite. Culturalmente non è possibile fare rete quando ognuno pensa solo a se stesso.
FZM: Qual è il libro che avete pubblicato di cui andate più fieri e perché?
FM: Non ce n’è uno in particolare, potrei rispondere almeno per collana, per esempio nella Scafiblù IL BUON AUSPICIO di Lorenza Ronzano, nella collana di letteratura ceca IL BRUCIACADAVERI di Ladislav Fuks con traduzione di Alessandro De Vito, in quella delle traduzioni dal mondo clandestine Tamizdat SUL FILO DELLA LAMA (Memorie della disintegrazione) di David Wojnarowicz traduzione di Chiara Correndo, in quella di traduzioni dal mondo con il testo originale a fronte Janus|Giano PRIMO AMORE di Ivan Sergeevic Turgenev con traduzione di Barbara Delfino.
FZM: Indicateci un autore che avreste voluto pubblicare ma che vi è sfuggito?
FM: Io che li ho conosciuti abbastanza bene e li ho letti, posso fare due nomi abbastanza recenti come Giuseppe Quaranta e Luigia Bencivenga.
FZM: Se un giovane ambisse a lavorare in una casa editrice, quali competenze dovrebbe avere e quale percorso formativo sarebbe opportuno portasse in dote?
FM: Leggere, leggere, leggere. Leggere le cose giuste, i grandi, ma occorre leggere, essere assetati e affamati di grandi letture, come siamo noi poi per il resto serve esperienza, noi abbiamo impiegato circa 7 – 8 anni per capire se andare avanti, come andare avanti, ogni errore si paga molto caro e bisogna puntare molto in alto.
FZM: Potete accennare alle vostre prossime novità editoriali? Avete un grosso “colpo in canna”?
FM: Beh sì… a novembre uscirà un altro titolo di Bohumil Hrabal, forse il più grosso scrittore ceco di tutti i tempi, con il titolo PABITELE e in versione integrale con una sorpresa che sarà spiegata e raccontata su questo libro che è nel meridiano Mondadori. Di questo autore abbiamo già pubblicato due inediti come LA PERLINA SUL FONDO e l’unico suo saggio COMPITI PER CASA. Inoltre di Hrabal abbiamo preso i diritti di altre 5 opere che usciranno nei mesi e negli anni a venire!
Un sentito grazie a Fabio Mendolicchio e alla splendida realtà che ha creato insieme ad Alessandro De Vito
Festa per i 15 anni di Miraggi Edizioni, dedicata a Giorgio Olmoti Magazzino sul Po/Salone OFF Un sogno clandestino tra ‘stracci e ossa’ in musica e parole scritte, cantate, sognate
Giorgio e il suo inseparabile Nash
Il Salone del Libro 2025, sezione Off quest’anno ha ospitato tra i suoi eventi un racconto tra musica e storie dedicato al compleanno di Miraggi editore e alla figura di Giorgio Olmoti, scrittore e (anche) storico collaboratore de L’Isola che non c’era, recentemente scomparso, che mantiene vivo il suo ricordo con le parole scritte e cantate che in occasioni come questa fioriscono in nuove storie e canzoni per mano, strumenti e voce di molti amici scrittori e musicisti.
Ma prima di raccontare l’incontro dedicato ad Olmoti, una veloce ma doverosa panoramica su chi questo incontro l’ha ospitato. Miraggi dunque.
Nasce a Torino e debutta al Salone del libro nel 2010, non certo in sordina, e quest’anno festeggia in musica e parole i suoi 15 anni di resistenza sottotraccia e sottopelle. Un’editrice così non può nascere a caso, svanirebbe in un lampo. Miraggi editore nasce con un’idea fissa, anzi due, da un lato una maniacale cura redazionale e grafica, a cui si aggiunge uno stile progettuale subito riconoscibile, dall’altro la scelta di pubblicare libri che guardano a nuove tendenze e nuovi scenari in tutti i continenti. Sono tre i protagonisti di Miraggi: Alessandro De Vito (responsabile della collana Ceca), Fabio Mendolicchio e Davide Reina.
Ci sono testi nati in italiano e testi tradotti dal mondo, e tutte le collane fanno riferimento alla “letteratura di contrabbando”, a opere spesso censurate, nascoste, a volte proibite. Tra queste la collana di letteratura ceca NováVlna, ‘Nouvelle Vague’, chiaro riferimento alla libertà e creatività artistica degli anni della Primavera di Praga. Nata nel 2017 e attualmente unica nel panorama editoriale italiano, ha in De Vito un curatore d’eccezione, madrelingua, fine traduttore e profondo conoscitore della materia; poi la collana Tamizdat, termine che nel blocco comunista e in Urss indicava le opere straniere, per lo più occidentali, fatte circolare clandestinamente; Scafiblù, collana il cui nome prende spunto dalle imbarcazioni utilizzate per il contrabbando delle sigarette a Napoli, con autori italiani che, per stile e contenuti, seguono sempre vie non ordinarie, diffidando del canone, e infine Janus|Giano, la preziosa collana dedicata alle traduzioni con testo a fronte di poesia, prosa, lirica.
Miraggi è dunque per progetto e per scelta un editore sottotraccia, cammina e si muove con acuta determinazione in una direzione piuttosto ostinata restando nella cifra della qualità delle sue ricercate penne. I suoi autori portano ognuno il respiro di una letteratura senza confini, nell’idea, perfettamente espressa di recente da una delle autrici di punta dell’editrice, un’intellettuale lucidissima, Radka Denemarková, che esista LA LETTERATURA, che non ha bisogno di essere confinata in una lingua, in un luogo o in momento storico, in quanto capace di rompere ogni diaframma. Il suo meraviglioso ‘Ore di piombo’ testimonia bene questo sentire. “Viviamo il tempo degli oligarchi narcisisti, che considerano il mondo un giocattolo privato” dice, e ancora “Io sono una scrittrice e una cittadina, e il XX secolo ci ha insegnato che il diritto di criticare è importantissimo. Un diritto che da una parte fa paura, ma dall’altra costituisce la nostra grande forza. Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma allo stesso tempo è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte”.
E poi il tema dei diritti, dell’ascolto, della cura, e la letteratura per Miraggi è tutto questo. Sempre coltivando le produzioni dal basso, quelle che non passano dai grandi media, quelle che non hanno canali social e vetrine che portano storia e vite di margine, non per contenuti ma per scelta sociale. Margine è essere e sentirsi clandestini alla Manu Chao, non dimenticare i rumori di fondo, far passare le parole oltre le lacche e le cronache effimere, gettare ponti per mondi letterari in comunicazione, e letteratura sono anche le parole delle canzoni, i testi di un fumetto, letteratura sono le narrazioni che vogliono arrivare e che portano l’energia della comunicazione, la parola e la musica. Infatti Miraggi ospita sovente tra le sue pagine scrittori che si occupano anche della scrittura di testi di canzoni, perchè la convinzione che abbiamo è che i mondi siano contigui e senza filtro o pareti. Margine è essere e sentirsi clandestini alla Manu Chao, non dimenticare i rumori di fondo, far passare le parole oltre le lacche e le cronache effimere e gettare ponti per mondi letterari in comunicazione, e letteratura sono anche le parole delle canzoni, i testi di un fumetto, letteratura sono le narrazioni che voglio arrivare e che portano l’energia della comunicazione, la parola e la musica. Infatti Miraggi ospita sovente tra le sue pagine scrittori che si occupano anche della scrittura di testi di canzoni, perché la convinzione che abbiamo è che i mondi siano contigui e senza filtro e pareti.
C’è il mondo intero nelle pagine di Miraggi, il mondo nelle storie di Luca Ragagnin, proposto allo Strega nel 2019 da Alessandro Barbero con il suo ‘Pontescuro’, o con il suo ‘Bambino intermittente’, in quelle di celiniana memoria di profondi confini interiori e di deserti abitati da dolenti umanità di Giorgio Olmoti, con il suo ‘Stracci e ossa’, o ancora di Luca Quarin con ‘Di sangue e di ferro’ (qui insieme in una foto di repertorio), e poi ancora Enrico Pastore o Eric Gobetti nel suo particolarissimo ‘Le straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei cevapcici’. Ogni anno una piccola preziosa produzione si arricchisce di nuovi titoli, di nuove scoperte, di nuovi sentieri di esplorazione letteraria, storica antropologica, poetica, umana.
Le ultime opere, le più recenti e le future, sono ancora dedicate al diverso, ai margini.
Per esempio ‘Sul filo della lama: Memorie della disintegrazione’, di David Wojnarowicz o i cinque volumi di prossima pubblicazione di Boumi Rabal, già in libreria in ordine cronologico a partire dal 2025.
Ecco questa è Miraggi editore, è esigente e non fa sconti, un laboratorio dove si sperimentano linguaggi. A dimostrazione ancora una volta che la creazione artistica ha i suoi percorsi scoscesi, complessi, spesso lenti oltre molte vite, ma come un fiume carsico scompare, riappare, scompare ancora ma continua a scorrere, a fluire, a sperare, a essere vitale.
E adesso la strada in musica per raccontare questa storia.
Federico Sirianni, Valeria Quarta (percussioni) e Veronica Perego (basso)
Il pomeriggio del Salone off, nella splendida scelta del Magazzino sul Po, storico locale dei Murazzi lato Buscaglione, affacciato sul fiume che corre lì a un passo dall’aperitivo, ha offerto un bel dibattito su quanto sia legittimo sognare, e quanto sia resistente chi rimane coerente al suo obiettivo e prova e spezzare il pregiudizio del “non potrai mai farlo” di cui ognuno di noi ha una bella collezione. Già lì la musica scaldava motori e parole ed era più forte dell’acqua.
La serata è partita poi all’interno del locale, con una sapiente introduzione del maestro di cerimonie Federico Sirianni che, insieme a Valeria Quarta alle percussioni e Veronica Perego al basso, accoglie uno per uno gli artisti, guida e lascia snocciolare in una lunghissima serata presenze poetiche, musicali, racconti, performante teatrali. Ognuno ha attinto alla sua storia, alle sue parole, ai suoi percorsi e li ha mescolati sul palco offrendoli all’ascolto.
Da Miriam Gallea a Stefania Rosso, dalla fisarmonica incantata di Matteo Castellan alle parole cesellate di Enrico Remmert, e poi un robusto Luca Morino, signore del palco e del suo pubblico, accanto alla levità determinata di Liana Marino. Seguono le parole di un racconto di Giorgio Olmoti, che aleggiano e ballano sui tasti delle chitarre, e poi la voce salda di Paolo Archetti Maestri (qui in altro durante la sua esibizione) e quella timbrica e profonda di Tiberio Ferracane che canta magistralmente e a cappella Lu pisce spada di Modugno, e poi ancora Mao, e Carlo Pestelli con la sua Clelia o Jeio Freschi con il Tun cul carburo che suona più forte di una bomba. E ancora le parole sonore, sghembe e acute di Domenico Mungo, l’emozione di Arsenio Bravuomo che riesce a diventare colore poetico e calore arancio vivo, la voce & note di Lory Muratti e Andy Bluvertigo con la loro meravigliosa performance.
Lory Muratti e Andy dei Bluvertigo
E ce ne sarebbero da dire, da Luca Quarin ad Alessandra Racca fino all’invenzione della parola a manovella di Guido Catalano, poeta elegante che trascina con l’ironia del paradosso e della sottigliezza, e ancora un elenco infinito di testimoni, di creativi innocenti e resistenti, che hanno dimostrato una volta di più che su un palcoscenico si possono fare magie democratiche che incantano e abbracciano tutti e a tutti arrivano come paradigma di sogno ma anche di impegno civile, con un solo pensiero di piuma a Giorgio e un motore che spinge potente verso l’invenzione. Essere ed esserci insieme, nei suoni autoriali e nelle parole dei poeti, condividendo una storia come questa, non è scontato, non è facile, ma è infinitamente generoso, alto, gesto unico di amore e paradosso, è un taglio che ci fa sentire ancora una volta vivi, e con la musica dentro e addosso, in quel filo sottile che Giorgio metteva “tra l’aorta e l’intenzione”, ci si sente al sicuro in questa incertezza amata, voluta, infine scelta. Finché ci saranno visioni ne varrà certamente la pena.
Questa è una delle immagini che Giorgio amava vivere, respirare, quando rientrava dai suoi viaggi
Servizio fotografico dell’evento a Magazzino sul Po, a cura di Ivano Antonazzo.
Le foto di Giorgio Olmoti sono prese dal suo profilo ufficiale
GEOGRAFIE «Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione», un memoir dell’artista e scrittore morto nel 1992 di Aids
Uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1991 e ora edito in italiano con il titolo Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, Close to the Knives di David Wojnarowicz (Miraggi editore, pp. 364, euro 24, traduzione e prefazione di Chiara Correndo, postfazione di Jonathan Bazzi) è un mémoir sui generis in cui l’artista nato a Red Bank (New Jersey) nel 1954 e morto di Aids nel 1992, a soli 37 anni, sperimenta diverse forme di scrittura: dall’introspezione diaristica al manifesto, dai frammenti onirici al reportage, dall’intervista all’invettiva politica. Come se si misurasse con le potenzialità creative di uno strumento, l’artista statunitense pratica i diversi registri della parola alla ricerca di una forma con cui dare un senso, quanto più possibile trasformativo, al proprio vissuto.
Cresciuto in una disperata marginalità, con un padre abusante morto suicida quando lui era bambino, Wojnarowicz è stata una delle figure più originali e radicali della scena del Lower East Side newyorkese degli anni Ottanta. Fotografo, pittore, scrittore, attivista e testimone dell’epidemia di Hiv, scrive a partire da un corpo attraversato da dolore e desiderio, con una lucida visionarietà che tenta di resistere alla violenza e all’annientamento. Si era formato da autodidatta nella New York post-punk, praticando varie discipline che gli avevano permesso di combinare fotografia, collage, pittura, stencil, musica e scrittura per dare forma a un’estetica del tutto personale, con immagini-simbolo come la casa in fiamme o quei bufali che franano giù da una scarpata scelti dagli U2 per la copertina del singolo One. Animatore di numerosi progetti collettivi, dal 1983 Wojnarowicz aveva contribuito a trasformare alcuni spazi abbandonati lungo il fiume Hudson, in particolare il Pier 34, in luoghi in cui oltre a fare sesso occasionale si produceva ed esponeva arte. Attivista vicino ad Actup negli anni dell’epidemia, utilizzò ogni mezzo per denunciare la repressione del dissenso arrivando perfino a farsi fotografare con le labbra cucite per manifestare contro l’equazione silenzio=morte.
LO SGUARDO DI OPERE come la serie Arthur Rimbaud in New York, si traduce nel testo in una lingua tenera eppure tagliente: «Vivevo per strada e vendevo il mio corpo a chiunque fosse interessato. Gironzolavo in un quartiere che era così affollato di barboni che non ricordo nemmeno come fosse l’architettura dei palazzi.
Io almeno potevo distendere le gambe e rimediare un tetto sopra la testa, mentre tutte queste persone per strada avevano raggiunto il punto in cui il loro corpo e la loro anima non interessavano a nessuno se non a loro stessi».
Wojnarowicz si osserva con un occhio «fuori di sé» e uno «dentro di sé»: la sua è una scissione percettiva spesso innescata dall’uso di sostanze che diventa però strategia esistenziale. Lo si percepisce per esempio nei vagabondaggi che intraprende nel deserto dell’Arizona alla ricerca di una distanza dalla metropoli dolente, abbandonandosi a derive allucinatorie che aprono squarci di tregua e di connessione con corpi e anime di passaggio.
Come per Burroughs, che nel saggio introduttivo la traduttrice cita come riferimento estetico-poetico del libro, la droga non è tanto una via di fuga dalla realtà, ma strategia di sopravvivenza e, ancora di più, viatico per forme più profonde di conoscenza. La prosa mai pietistica si fa strada dalla soglia del baratro in cui langue un’umanità che è derelitta non per destino ma come esito di meccanismi sociali scientemente discriminatori. Nei suoi «raggi X dall’inferno», Wojnarowicz denuncia gli Usa che chiama «nazione monotribale», governata da un’ideologia cannibale che annienta tutto ciò che è altro.
LE SUE IMMAGINI apocalittiche, con quei «mucchi di carne marcia» che costellano il paesaggio urbano, portano alla luce la violenza della politica e la corruzione del linguaggio televisivo («non sottovalutare la pericolosità del politico alto trenta centimetri»), la brutalità della Chiesa, il proliferare sistematico della paura e dello stigma: «Il nemico è ovunque: nel corpo, nella razza, nella classe, nel governo, nella cultura, nel sistema giudiziario, nei media». La scrittura immaginifica delle pagine più biografiche si fa asciutta e documentata nelle analisi sociali su cui incide la volontà di lasciare una traccia oltre la morte. La denuncia delle politiche governative colpevoli nei confronti delle persone affette da Hiv/Aids risuona attuale nonostante il virus oggi non si presenti più in forma pandemica nei paesi ad alto reddito. Però, i tagli inferti ultimamente dall’amministrazione Trump ai fondi federali per la ricerca biomedica con in più il congelamento del sostegno ad agenzie di cooperazione internazionale come Usaid (United States Agency for International Development) avranno conseguenze dure. I finanziamenti statunitensi rappresentano, infatti, una parte cospicua delle risorse che in oltre cinquanta paesi del mondo permettono la diffusione delle cure antiretrovirali e della profilassi pre-esposizione da Hiv (PrEP). L’Unaids, organismo delle Nazioni Unite per il contrasto all’Hiv, ha addirittura fatto sapere che al momento è compromesso il piano che ambiva a porre fine all’infezione da Hiv entro il 2050.
Nel suo studio appena uscito in Francia con il titolo Une histoire mondiale du sida. 1981 – 2025, Marion Aballéa aiuta a fare il punto della situazione e a comprendere le dinamiche culturali, sociali ed epidemiologiche che hanno caratterizzato dagli anni Ottanta ad oggi il fenomeno Aids. All’alba di una svolta epocale, la ricerca scientifica e la cura potrebbero subire una drammatica battuta di arresto. Ecco dunque che l’opera di figure come Wojnarowicz non permette solo di rendere patrimonio storico comune la memoria dei morti di Aids così come accade per i morti di guerre e altre catastrofi. Quell’esperienza è un monito per l’oggi: il morbo che ha annientato una generazione esiste ancora e le sue cause non possono essere ignorate fingendo che riguardino solo l’altro da sé.
ANCHE IN QUESTA prospettiva si può situare la mostra che il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato attualmente dedica a Peter Hujar Azioni e ritratti / viaggi in Italia a cura di Grace Deveney con Stefano Collicelli Cagol (fino all’11 maggio). Hujar (1934 – 1987) fu amante e mentore di Wojnarowicz (presente in mostra) e i suoi scatti restituiscono le relazioni con una certa scena artistica e intellettuale newyorkese (Merce Cunningham, John Cage, Susan Sontag) corpi in azione, retroscena di esibizioni teatrali o coreutiche, di spettacoli drag. La sezione italiana del percorso ritrae un’Italia misteriosa, teatro di volti, paesaggi e corpi animali in chiaroscuri accesi pronti a inghiottire la vita nelle tenebre.
Lo stesso Centro Pecci ospiterà dal 4 ottobre 2025 al 1 marzo 2026, la mostra Vivono. Arte e affetti, Hiv-Aids in Italia. 1982 – 1996, curata da Michele Bertolino. Un percorso tra opere visive, video, poesie, paesaggi sonori, materiali d’archivio e oggetti personali che ricostruisce una storia internazionale dell’arte italiana negli anni dell’epidemia attraverso figure come Nino Gennaro, Corrado Levi, Lovett/Codagnone, Ottavio Mai, Porpora Marcasciano, Francesco Torrini e Patrizia Vicinelli.
Il mondo ha bisogno di colori. E il musicista-pittore Andy e l’artista-scrittore Lory Muratti hanno scelto un modo assai insolito per restituirglieli: L’ora delle distanze, astronave psycho-fantasy basata su un romanzo scritto da Muratti e illustrato con i quadri di Andy (pubblicato dalla casa editrice torinese Miraggi) e su due canzoni (L’ora delle distanze e La caduta), che stasera alle 21 atterra sotto forma di reading musicale a San Salvario, sulla libreria Luna’s Torta.
Articolato nei contenuti e nel mix tra linguaggi, il progetto ha richiesto anche una lunga genesi, a partire «da un giorno del 2009 in cui Lory venne a trovarmi nel mio capannone, racconta Andy. «Eravamo bloccati dalla neve. allora tirai fuori il vecchio soggetto per un corto che era rimasto in un cassetto. Lory ha ampliato l’idea, ispirandosi e dando senso alle mie opere».
Nel romanzo va in scena una sorta di battaglia esistenziale per la salvezza di un pianeta che non sa più sognare. «Di giorno il protagonista, che è una versione di Andy, distribuisce chiazze di colore a un mondo spento, privo di slancio, corrotto», dice Muratti. «Di notte rientra nella sua casa-laboratorio e viaggia nelle “distanze”, un non-luogo in cui incontrai personaggi delle sue opere.
Il colore entra nel corpo dell’eroe attraverso un rito che mescola suggestioni ospedaliere, cyberpunk e da assunzione di stupefacenti. con tubicini che collegano l’uomo a un dipinto e a un sintetizzato re. «L’obiettivo però non è alterarne lo stato di coscienza, ma aiutarlo a una presa di coscienza», precisa Muratti. «Farlo rientrare in contatto con se stesso attraverso una sostanza innocua come il colo-re». «In particolare il fluo, che da sempre è al centro del miei lavori», aggiunge Andy, «L’immagine è senza dubbio forte, con la durezza della flebo e dell’ago in vena, e il video di La caduta che mette in scena il rito è stato bloccato da YouTube. Abbiamo dovuto spiegare il significato dell’opera per sbloccarlo. Un altro segnale dell’ipocrisia in cui viviamo: va bene caricare filmati in cui si picchiano animali, ma non mostrare un colore che entra nel corpo. Per me L’ora delle distanze è un’opera sulla risorsa dell’introspezione. Può aiutare le persone a guardarsi dentro e ritrovare quella moltitudine di colori che oggi rimangono appiattiti».
Sono sbiaditi anche nella musica? In quel Festival di Sanremo che Andy ha conosciuto di persona (nel 2001 e nel 2016 con i Bluvertigo) e che è di nuovo alle porte, per esempio se ne trova ancora traccia? «lo vedo molte chiazze interessanti», risponde il musicista. «Cristicchi, Brunori. Willie Peyote. Giorgia, soprattutto Lucio Corsi per cui farò i tifo. Avrò anche un evento in città. Sanremo è la vetrina più importante ed è riuscita ad abbassare il suo target anagrafico, anche se ci propina i singoli che dovremo sorbirci tutto l’anno. Ma fa parte del gioco e chissenefrega se i Bluvertigo sono arrivati sempre ultimi. Il problema vero della musica è nel suo disfacimento quando ci si focalizza solo sui soldi e il discografico diventa un commercialista. Noi abbiamo avuto la fortuna di emergere in un’epoca in cui si faceva ancora scouting, venivi scoperto nei club, ti davano il tempo di registrare dischi. Oggi tutto è uniforme, la velocità di consumo è allucinante e gli algorit. mi chiudono la proposta in un enorme supermercato. Un’epoca di contraddizioni, perché offre anche un potenziale tecnologico meraviglioso, che ti permette di registrare un album a casa e farlo ascoltare autonomamente in Giappone.
Iper-autonomo e dal respiro indipendente è anche il progetto L’ora delle distanze, che 15 anni dopo la prima scintilla tra la neve della Brianza continua a crescere e mutare forma. «In questo mini-tour proponiamo un reading con sottofondi musicali». dice Murati. «Un’anteprima dello spettacolo teatrale che stiamo preparando per la primavera».
Alessandro De Vito pubblica il libro fiume della poetessa e drammaturga Radka Denemarková scritto fra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum.
È tutta una questione di recupero di memorie. Poi però bisogna intendersi sul significato di ricordo e di memoria, e anche sull’uso del singolare o del plurale. Quello che adesso fa Alessandro De Vito, 53 anni, fondatore nel 2010 di Miraggi Edizioni, figlio di Antonio, pugliese, giornalista, e di Dana, maestra, ceca di Ostrava, allora ancora Cecoslovacchia, è figlio della volontà di riannodare la memoria perduta.
La dice così. E “La memoria perduta” potrebbe essere il titolo di un libro, il suo libro, se mai lo scriverà. Per ora pubblica quelli degli altri. E oggi ha sul tavolo l’ultima fatica-follia-avventura data alle stampe, definita «la nostra più grande impresa editoriale». Esce a metà di questa settimana: “Ore di piombo” di Radka Denemarková, poetessa, drammaturga, traduttrice, una delle intellettuali più ascoltate della Repubblica Ceca. Un libro fiume, anzi mare, anzi oceano: 928 pagine scritte in cinque anni tra Praga, Pechino, Graz e l’isola di Amrum. Tre anni ha impiegato per tradurlo Laura Angeloni, che ne parla come di un classico contemporaneo che passerà alla storia e confida di aver vissuto, mentre era dentro l’opera, quasi in un’altra dimensione.
E un’altra dimensione è quella della Cina raccontata dal libro: cultura, politica, tradizioni, contrasti. «L’autrice tenta di raccontare con tutta la forza espressiva della letteratura il nuovo secolo cinese – spiega De Vito – Descrivendo quella società, ci fa riflettere su come siamo noi. La protagonista è una scrittrice affascinata dalla Cina che incontra diversi personaggi dai nomi simbolici. Quando scopre che l’essenza di quel paese è nel pensiero di Confucio, compreso l’autoritarismo che unisce e omogenizza tutto, capisce molto di più i cliché, i vizi e le contraddizioni della vecchia Europa. Essendo una donna dell’Est, cioè una persona che ha recuperato la libertà da poco, ritrova in molti nostri atteggiamenti gli stessi modi autoritari e non umani di cui spesso accusiamo gli altri».
Un romanzo non tanto sulla Cina, ma con la Cina, che racconta di noi. Bisogna affrontarlo come quando ti attrezzi per un viaggio lontano, incline alle scoperte. «È una lettura impegnativa che apre a prospettive diverse. Non ti lascia accomodato nella tua comfort zone. Altrimenti che viaggio sarebbe? Tanto vale rimanere a casa». A questo libro, il ventiduesimo della collana di letteratura ceca, e in genere al lavoro di editore, che è uno in grado di ascoltare e far viaggiare per il mondo le storie degli altri, Alessandro De Vito è arrivato recuperando le tessere della memoria familiare. «È una storia articolata – spiega – Mio padre era figlio di un falegname emigrato a Torino, che in Puglia nel 1924 ha fondato una sezione del Partito Comunista. Mentre i miei nonni cechi erano borghesi e, prima, hanno subito l’invasione nazista e poi hanno vissuto sotto la dittatura comunista, quindi erano feroci anticomunisti. I miei si sono conosciuti in Bulgaria, sul Mar Nero. Si sono visti un paio di volte e nel 1969 si sono sposati. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza, un mese d’estate l’ho trascorso dai nonni a Ostrava. Ho smesso di andarci a vent’anni e ho perso completamente la lingua ceca».
Altri vent’anni sono passati prima che la recuperasse. «E accaduto verso il 2009, quando ho iniziato a interessarmi di letteratura». Prima ha fatto altro. Si è iscritto a Legge, ma presto finisce fuori corso. Dopo quattro anni molla gli studi e va a lavorare in un circolo Arci di Grugliasco, in cucina. Poi torna all’università, a Lettere però. E nel 2000 si laurea in Storia del cinema con una tesi sulle Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta. «È stato un primo recupero dell’identità ceca. Comunque, vado a lavorare in una cooperativa sociale. Solo dopo una decina d’anni, quando con gli amici Fabio Mendolicchio e Davide Reina già cercavamo di lavorare nel mondo editoriale e poi abbiamo deciso di fondare la nostra casa editrice, soltanto allora ho rimesso insieme le mie radici».
È così che nel 2016, alle collane di narrativa italiana e narrativa straniera, si affianca quella di narrativa ceca. Nel lavoro di editore. che consiste nel leggere, scegliere, curare storie e coltivare idee in forma di libri, De Vito ricompone il mosaico delle sue storie personali e delle sue geografie. Il modo in cui guida la casa editrice può essere riassunto da ciò che Radka Denemarková dice del suo romanzo: «Ho voluto metterci l’essenza di tutto ciò che sono riuscita a capire di questo mondo. Ma forse, soprattutto, ciò che non avevo capito». È così che si va avanti, a far libri e a vivere: si continua a ricercare.
Valeria Carletti è innanzitutto una stalker di professione e una groupie accanitissima. Cerca sempre di infilarsi nei backstage dei concerti e, perché no, se possibile anche nei camerini, così da scambiare quattro chiacchiere con i suoi artisti preferiti. C’è però un piccolo dettaglio da aggiungere: Valeria è in carrozzella, ma sogna comunque di fare uno stage diving. Ma non importa se ciò (per ora) è irrealizzabile, perché la musica la fa sentire viva, e molti cantanti ormai la conoscono bene e sono diventati veri e propri amici (Zen Circus, Dario Brunori, Samuele Bersani, Max Gazzé, eccetera eccetera). Poi con il suo cane Luna… Anzi, diciamolo bene: la sua cana… Ecco, con la sua cana Luna, si aggira sempre per le vie di Torino con le cuffie nelle orecchie. Ogni canzone le spalanca mondi ed emozioni fortissime, che la fanno vibrare di quella vita che a volte sembra sfuggirle. Perché sì, la sua non è soltanto una storia di entusiasmi e di “andràtuttobene”! Tutte cazzate, quelle. Ci sono anche i momenti bui, in continuazione. Alcuni amici le dicono che lei ascolta troppe canzoni tristi, ma non importa: si sa che le canzoni tristi sono anche la cosa più bella del mondo. E poi Valeria ha già organizzato in un’occasione un festival (naturalmente incentrato sulla musica) avente l’obiettivo di discutere, e se possibile abbattere, le barriere architettoniche: l’Oltranza Festival. Ora sta già pensando a una seconda edizione. E per via di tutto questo attivismo, di conseguenza, non riesce proprio a sopportare gli odierni governanti, del tutto indifferenti alle fatiche degli ultimi ma con la bocca sempre impastata di cristianesimo. Valeria, in effetti, talvolta pensa: “Chissà come si vergognerà quel crocifisso che tengono in mano”…
Cinquanta canzoni. Cinquanta canzoni che, se si ha tempo e voglia (trovateli), si possono anche ascoltare su internet grazie a QR Code presenti all’inizio di ogni capitoletto. Cinquanta canzoni che ci introducono alla vita, alle esperienze e agli innumerevoli concerti a cui Valeria Carletti ha preso parte. E va specificato: cinquanta canzoni di artisti per lo più indipendenti, tanto si sa: ormai (concordo con Valeria) la buona musica si trova soprattutto da quelle parti. Questo è dunque un diario, ma un diario di un genere molto sghembo e simpatico. Stracolmo appunto di musica (sono felicissimo di aver dovuto recensire io questo libro, dato che con gli Zen e Brunori ci sono cresciuto, e quindi…) e stracolmo di emozioni. Non tutte positive, sia chiaro, ma non stiamo qui a trattare Valeria come una poverina, né al contrario come una donna di forza eccezionale o altre scemenze del genere. Valeria è una donna, punto. Anzi no: devo aggiungere una cosa (del resto sarei qui proprio per questo). Valeria è una scrittrice. Questo infatti è un libro magnificamente scritto, struggente in molti punti, e capace di trasmettere un dolore intenso come solo certi libri sanno fare. Ci pone insomma dinanzi alle difficoltà della vita (di lei, ma anche nostra) con grande sincerità. In conclusione, davvero, qui c’è bellezza.
Qui l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/oltranza-disavventure-di-una-vecchia-groupie
Saša Sokolov (Ottawa, 1943) è uno delle voci più importanti ed originali del panorama letterario dell’emigrazione russa del secondo Novecento. Esule nella vita, dal 1975, e nell’animo, è autore di tre romanzi: La scuola degli sciocchi (Škola dlja durakov, 1976; traduzione di Margherita Crepax, Salani 2007); Tra Cane e Lupo(1980); Palissandreide (Palisandrija, 1985; traduzione di Mario Caramitti, Atmosphere Libri 2019); oltre che di diversi saggi “proetici”. Trittico è l’ultimo e più maturo frutto della sua ricerca.
Sul pannello di destra del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch – quello raffigurante “l’inferno musicale” – campeggia la misteriosa figura dell’Uomo-Albero. Il corpo di questa creatura è costituito da un guscio d’uovo schiuso sorretto da due gambe-tronchi calzati di scialuppe. Il suo volto – in cui alcuni hanno voluto vedere l’autoritratto del pittore fiammingo, altri addirittura quello dell’anticristo – è rivolto verso l’osservatore, mentre lo sguardo è diretto alla bisca ospitata all’interno del suo corpo, che osserva con aria indifferente e sorniona, come a una cosa che non lo riguardasse. Sul capo porta un disco inclinato su cui alcune figure ibride marciano tenendo per mano i corpi nudi dei dannati. A completare la scena, in alto a sinistra si trovan o, tra le altre cose, un paio di orecchie trafitte dalla lama argentea di un pugnale.
L’Uomo-Albero – atipico direttore d’orchestra nell’“inferno musicale” del trittico di Bosch – sembra una figura quanto mai adatta per parlare di un altro trittico, che, anche se meno grottesco, non è per questo meno musicale, né meno brulicante di strane creature. Si sta parlando dell’ultimo libro dello scrittore di lingua russa Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), tradotto in italiano da Martina Napolitano per i tipi di Miraggi Edizioni. Il volume, che, come gli altri della collana “janus|giano”, gode del pregio di riportare il testo originale russo a fronte, raccoglie e presenta per la prima volta al pubblico italiano tre componimenti poetici pubblicati inizialmente sulla rivista letteraria “Zerkalo” durante gli anni 2000.
I tre “pannelli” che vanno a comporre Trittico – Ragionamento (Rassuždenie), Gazibo, e Il filornita (Filornit) – sono suddivisi in strofe numerate di lunghezza variabile non rispondenti ad alcuno schema metrico tradizionale. La scelta di adottare il cosiddetto verso libero non è casuale da parte di Sokolov e, come non manca di sottolineare la traduttrice nella prefazione al libro, sembra rispondere alla precisa volontà dell’autore di risalire alle origini prime della poesia e della lingua, che sono confuse con quelle della musica. I tre componimenti infatti abbondano di riferimenti e indicazioni musicali che conferiscono al testo un carattere quasi librettistico. Anche la struttura corale (mnogoloso p. 42), e il carattere performativo dell’opera, da leggersi espressamente “a voce non troppo alta”, “come un recitativo” (p. 37), sembrano confermare il desiderio dell’autore di ricongiungersi alle origini ancestrali della poesia, intesa prima di tutto come dialogo polifonico sul Bello (izjaščnoe) che dovrebbe trascendere la sfera dell’umano.
“Prendiamo piuttosto il punto di vista dell’eternità, allora diverrà chiaro che tutto, compresa la sabbia dispersa del sahara dai sette samurai, si sistemerà, s’incollerà, si riunirà, tornerà come prima” (p. 49)
Se da un lato la “danza linguistica” (p. 5) di Trittico si articola sul piano atemporale dell’Arte e nella dimensione ciclica dell’eterno ritorno, dall’altro il testo si pone espressamente come “autentico documento umano” (p. 45), che in virtù del suo legame con la phonè, con la voce, o meglio, con le voci, acquista una portata etica. In quest’opera infatti, in modo ancora più radicale che nelle precedenti, la figura autoriale si dissolve nel respiro ritmico della scrittura e del verso, e, come il corpo dell’Uomo-Albero nel trittico di Bosch, si fa concavo per ospitare una moltitudine di personaggi e di voci, a cui guarda con un sorriso misto di malizia e rassegnazione, come se non gli appartenessero, come se provenissero, appunto, da altrove.
Nella vita come in Letteratura, Saša Sokolov esorta i lettori ad abbandonare le categorie prestabilite (“ci è assai di conforto che voi non siate di quei / linnei che gli insetti e gli uccelli, / sulla sola base che i secondi / sono alati sempre, e i primi talvolta, / li riducono al comune denominatore, / […] ah, quanta ancora superficialità in loro, / quanto dogmatismo” pp. 67-69), orientandosi piuttosto verso una visione panteistica del mondo e dell’esistenza, in cui “qualunque cosa si prenda è correlata” (p. 73). Solo così si sarà in grado di pensare “a folate, nello stile del vento” (p. 63), ma anche “nello stile del fiume” (p. 65) e in quello del giunco; ovvero di uscire dalla monade del sé per divenire Altro.
In questo senso, Trittico rappresenta l’ultima tappa della ricerca dello scrittore, che porta alle estreme conseguenze il progetto di disgregazione della voce narrativa già iniziato nel suo romanzo d’esordio, La scuola degli sciocchi. Il risultato è una scrittura diafana e rarefatta che oscilla tra espressionismo astratto e preziosismo barocco, e in cui è talvolta impossibile stabilire con certezza quale sia l’argomento del discorso e chi stia parlando. Che sia, per esempio, la vedova di guerra trasformata in mosca in Gazibo, il compositore cinquecentesco Antonio Scandello, o ancora la signora ispanica che appare nel Filornita, personaggi e voci si accavallano e si confondono nelle pieghe del tessuto contrappuntistico dell’opera, che, nonostante gli appigli offerti dall’apparato di note che correda il volume, a un primo approccio può lasciare a dir poco disorientati.
Una possibile strategia per approcciare un testo di questo genere sarebbe forse quella di “tirare i remi in barca” e, inerti, lasciarsi trasportare dal flusso sonoro della scrittura, così come, del resto, l’autore stesso si lascia volentieri andare ad un’euforia puramente fonetica per la Parola, e per la sua capacità di generare associazioni inaspettate, personaggi ed episodi sempre nuovi. Questo entusiasmo si riflette, per esempio, nel leitmotiv dell’enumerazione e delle liste, che percorre in modo trasversale i tre “pannelli” di Trittico.
Già artificio principe del cosmo sokoloviano, liste ed elenchi vi svolgono una funzione opposta a quella che a loro viene solitamente assegnata, cioè invece di ordinare il discorso, hanno il compito di disperderlo ulteriormente, e di mostrare quindi il mondo e il linguaggio nella loro dimensione di caos e entropia. Ma poiché, “si sa, i dettagli sono nella lettera” (p. 37), l’elenco particolareggiato, stilato lentamente, con cura e dovizia di particolari, diventa per esteso metafora delle Belle Lettere e, quindi, della creazione di quel Bello (izjaščnoe) che è al cuore della poetica dell’autore. Inoltre, come confermano i riferimenti ai papiri e alle antiche civiltà mesopotamiche disseminati per il testo, in Trittico cataloghi, liste, fogli contabili, registri e quant’altro si legano al tema dell’infanzia della scrittura, alle cui origini si trova appunto l’esigenza di enumerare ed elencare possedimenti e beni, e di rendere conto degli scambi commerciali.
In conclusione, non resta che augurare buona fortuna (e buon viaggio!) alle lettrici e ai lettori italiani che vogliano cimentarsi con un’opera tanto complessa e stratificata come Trittico. La traduzione della sokolovedka Martina Napolitano, fedele alla sostanza originale della lingua dell’autore, sarà di certo una guida preziosa per apprezzare a pieno la bellezza e la musicalità di questo testo fuori dal comune: un vero e proprio giardino delle delizie.
SCRITTRICI CECHE. «Il secondo addio», (Miraggi edizioni), primo romanzo di Sylvie Richterová a essere stato pubblicato non in samizdat, 1994: cortina di ferro e anni di piombo, una doppia prospettiva tra illusioni e stupore
Un «vivaio di fantasmi» e anche un’«arena di sortilegi» fu Praga per Angelo Maria Ripellino. Una «trappola che, se afferra con le sue brume, con le sue male arti, col suo tossicoso miele, non lascia più, non perdona». Si direbbe che respirino ancora gli stessi enigmi e gli stessi incantesimi nella Praga meno gotica ma più metafisica, quasi cubista in cui Sylvie Richterová allestisce lo scenario del suo quinto romanzo, il primo che ha potuto pubblicare non in samizdat, uscito in ceco nel 1994 e ora disponibile in italiano nella limpida traduzione di Alessandro De Vito con il titolo immutato Il secondo addio(Miraggi edizioni, postfazione di Massimo Rizzante, pp. 156, € 18,00). Dei tredici personaggi che abitano il libro, formandovi una sorta di scombinata famiglia stretta da legami d’amore, soltanto Pavel rimane avvinghiato a Praga, chiuso in un suo rassegnato isolamento «dietro i chiavistelli del tempo totalitario». Praga continua però a chiamare indietro dalla città in cui si sono rifugiati durante gli anni settanta, una Roma colorata e rumorosa che diventa il secondo sfondo della trama, sia Marie sia Jan, i cui differenti percorsi disegnano un ponte tra due luoghi del tempo oltreché dello spazio.
Richterová, nata a Brno nel 1945, a Praga si è trasferita nel ’63 per frequentare la facoltà di lingue e letterature moderne all’università. Nel ’71 si è stabilita in Italia, prima a Roma, dove ha insegnato alla Sapienza fino al 2009, poi a Trevignano Romano; grazie alla doppia cittadinanza ha potuto tornare spesso nel suo paese di origine anche prima della rivoluzione di velluto. Nasce dall’esperienza personale, benché Il secondo addionon sia affatto un libro autobiografico, quell’insolito, straniato ma acuto sguardo bifocale che l’autrice posa sulla vicenda mentre la narra. Non si tratta unicamente della doppia prospettiva geografica da cui la storia è osservata, piuttosto del duplice stupore che percorre l’intero testo. Sulla pagina l’assurdità del regime a cui si sottraggono Marie e Jan non risalta con minore evidenza rispetto alla follia di quei nostri anni di piombo in cui si trovano a costruire una nuova vita. Malgrado l’opzione di uno stile disincarnato e asciutto, l’atmosfera emotiva del testo è così incandescente da produrvi un ulteriore sdoppiamento, se lo stupore appare acceso sia dall’insensata violenza degli eventi sia dalla loro frettolosa rimozione. Il titolo stesso evoca un’accezione biforcata: l’addio di Jan, personaggio principale del romanzo e per buona parte suo narratore, è indirizzato tanto al suo paese di origine quanto a quello di adozione, alle speranze che si è lasciato alle spalle come alle illusioni che proiettava davanti a sé.
«I movimenti, i gesti, gli atti e i fatti, che costituiscono una storia, stanno in superficie. All’interno c’è il battito del cuore e il dolore che insiste su di esso, una grande domanda aperta come la mandibola di uno spazio nero, vuoto, in silenziosa attesa. Mi sto avvicinando al limite?» dice nel libro una voce che sembra appartenere a Jan. Malgrado l’apparenza Il secondo addio non è un romanzo sulla storia e nemmeno sulla memoria: piuttosto sulla coscienza umana e su ciò che accade quando la coscienza umana si spegne. La coscienza sembrerebbe rappresentare per la scrittrice l’unico luogo in cui ognuno di noi, a maggior ragione chi ha perduto la sua patria e la propria infanzia, può davvero ritornare. È significativo che il testo si apra con la descrizione di una casa in fiamme e che l’immagine della casa, persa cercata o ritrovata, attraversi percussiva tutte le sue pagine. Spazio percorribile in ogni direzione e in cui ogni personaggio può sentirsi accolto, spalancato ai venti ma protettivo, il libro stesso ha la forma di una casa. Perfino la scrittura sembra assumerne la funzione rassicurante in questo romanzo dove tutti i protagonisti scrivono, mosaico assemblato con lettere spedite o solo immaginate, note di taccuino, frammenti di biografie e saggi, spezzoni di manoscritti mai compiuti, dimenticati o smarriti, donati affinché siano custoditi. La scrittura soltanto, sembra dire la narratrice, può salvare i personaggi dalla dispersione della memoria, dalle amnesie di quella storia che pure hanno vissuto.
Più dei personaggi, privi del resto di qualsiasi connotazione fisica, contano infatti i legami, le parole e i pensieri che si scambiano: nel libro le loro voci si sovrappongono e disorientando il lettore si avvicendano in una sorta di corale prima persona. «I secondi non si susseguono nel tempo uno dietro l’altro, colpiscono come le punture di un ago acuminato, attaccano da ogni parte, come quando piove e c’è vento, ma non si portano via l’attesa, non riescono a lavare via nulla» riflette Jan in Che ogni cosa trovi il suo posto, romanzo con cui vent’anni dopo Richterová completa di significato la sua storia ribaltandone la prospettiva. Per Il secondo addio, la cui partitura ricorda il modernismo polifonico delle woolfiane Onde, l’autrice costruisce un’architettura ferrea benché in apparenza destrutturata, adotta una forma chiusa in cui però le sequenze possono essere scomposte e riordinate dal lettore come le tessere di un caleidoscopio. La trama procede per illuminazioni e soprassalti assecondando la memoria, si dispiega per poi arrotolarsi di nuovo alla maniera di un tappeto. Nel romanzo il tempo coincide esattamente con lo spazio narrativo.
Sylvie Richterová, volendo rubare gli aggettivi usati da lei per un’altra narratrice ceca, è «uno dei personaggi più eccezionali, innovatori e difficilmente classificabili della letteratura contemporanea»: in lei, le parole provengono ancora dal suo Ritratto di Vera Linhartová, «rigore e coerenza sono le qualità che più sorprendono» perché esse «conducono regolarmente a risultati imprevedibili o almeno imprevisti». Davvero grande scrittrice, Richterová racconta un trauma che non può essere narrato seguendo strade conosciute perché ogni strada esplode con quel trauma. La scrittura che sceglie per sé, edificando la sua casa, è il materico emblema, la figura stessa della libertà.
È il titolo del libro di Liliana Madeo, appena ripubblicato. Mezzo secolo di storia italiana, dal 1946 al 1998, da Rina Fort a Anna Donati. Sono «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse. Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio»
Di Nadia Tarantini
Sono «le donne che rifiutano un destino predeterminato e scelgono di buttare all’aria tradizione, gerarchie, persino il rispetto della legalità», le protagoniste di un libro di cronaca, di storia, di cultura – che si legge come un romanzo, o una raccolta di racconti. Lo si dice spesso, ma in questo caso l’arte grande di cronista di Liliana Madeo, autrice di Donne “cattive”. Cinquant’anni di vita italiana (Miraggi edizioni), sfocia spesso e volentieri nella sapienza letteraria che troviamo in altri suoi libri, e compiutamente in Si regalavano infamie. Antonina e Teodora le potenti di Bisanzio, pubblicato da Pironti nel 2021.
Un libro, Donne “cattive”, ripubblicato nel 2023, a ventiquattro anni dalla prima edizione con La Tartaruga, che conserva l’incredibile freschezza delle scoperte, con il vantaggio di poter suscitare sorpresa e interesse in chi quegli anni – dai Cinquanta in poi – non li ha vissuti. Trama, personagge e personaggi, relazioni e ambiente: il tutto intessuto con abilità per creare curiosità e riflessioni su fatti di cronaca e di costume, su fenomeni sociali e criminali, in una rete di donne diversissime: la pluriomicida Rina Fort a fianco di Franca Viola che ci ha regalato la fine del matrimonio riparatore; la marchesa Casati e Tamara Bormioli, accomunate dal desiderio di diventare altre, di calcare i palcoscenici del potere e della vita di lusso; Doretta Graneris, che inaugura i decenni dei giovani assassini delle famiglie, per soldi; e Pupetta Maresca, la prima donna di camorra. E poi Ilaria Occhini dama bianca di Coppi, antesignana delle rovinafamiglie per amore; Vera Piegai, Lorena Nunziati, che sfidano poteri forti e Chiesa con atti di consapevole audacia o forse di incoscienza. Le teologhe che vengono allo scoperto, le femministe, la prima donna nella stanza dei bottoni (Anna Donati).
Tutte «donne con il gusto della provocazione, con un proprio progetto di vita, capaci di scelte radicali, di scelte a volte perverse a volte audacemente innovative. Persone cariche di valenze simboliche»; «in grado di innescare meccanismi grazie ai quali in Italia sono nate leggi degne di un paese democratico»; «Donne scomode. Le madri delle ragazze del nuovo millennio». Il libro tra-scorre così dal secondo Dopoguerra alle soglie del Duemila, regalandoci quadri precisi e arguti del passare del tempo, del mutare delle abitudini e delle passioni; si comincia dal 1946, con l’immaginario ancora pervaso da simboli arcaici: «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue», scrive Dino Buzzati all’indomani della scoperta dei cadaveri di una donna e i suoi tre figli, pluri-omicidio di cui sarà accusata (e per i quali poi condannata all’ergastolo) Rina Fort, amante del marito e padre della famiglia. E si finisce nel 1998, dentro al moderno scontro fra diritti alla salute e diritto al lavoro: «In quella stanza dei bottoni non era stata mai ammessa una donna» ovvero Anna Donati, designata dal ministro del Tesoro Ciampi a far parte del Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie dello Stato.
Trama, ambienti, personagge e personaggi – ricostruzione documentata di ogni momento storico in cui le vicende si sono svolte: dall’economia al teatro, dalle condizioni sociali e personali delle protagoniste alla musica e al cinema. E la scrittura di Liliana Madeo. Scrittura abile, esperta, arguta, di cronista avvezza ai grandi fatti di cronaca come agli eventi e ai personaggi della cultura, disinvolto scivolare in una scrittura letteraria. «È una trentenne con viso ovale, pelle olivastra, zigomi alti, occhi scuri, bellissimi. Veste cercando sempre di “essere in ordine”, ha maniere spicce. Sa rispondere con durezza a chi la infastidisce. È una friulana brusca e silenziosa. […] A Milano arriva a 16 anni. […] Con una rabbia antica in corpo, fin da quando era una bambina selvatica, che al paese si distingueva da tutti perché odiava le bambole […] Due facce diverse dell’Italia contadina vengono alla luce sotto i riflettori dell’aula. Da una parte c’è Rina Fort, icona arcaica di una femminilità oscura, tetra, possessiva, la donna che nell’appartenenza a un uomo trova la sua identità e il senso della propria vita. Dall’altra parte ci sono le donne della famiglia Ricciardi, che sfilano davanti alla corte con gli abiti neri, gli scialli sul capo». «Nessuno ebbe dubbi. Anna (Anna Fallarino, marchesa Casati Stampa, n.d.r) provava piacere, si divertiva a fare quei giochi proibiti. Una viziosa […]. A nessuno venne in mente che quella di Anna potesse essere un’altra storia. Che […] forse lei aveva spezzato le barriere che definiscono e censurano il desiderio femminile».
E, infine, la Milano del 1946, quando Rina Fort lascia l’appartamento della strage: «La città è ancora poco illuminata. Ma Milano ha ripreso a vivere, la gente ha incominciato a uscire la sera. […] La voglia di dimenticare, di recuperare il tempo perduto esplode. La prima estate di libertà è una frenesia di balli, canzoni, giochi di sesso. Un’estate calda, con tutte le aspettative di rinascita ancora intatte. La pace che è scoppiata dà al ridere e al sognare il senso della speranza. L’Idroscalo si è affollato di corpi smagriti ma bene in mostra. Svolazzano le gonnelline delle ragazze in bicicletta. Le notti si sono fatte piene di piroette, magari di ragazze che per mancanza di cavalieri ballano fra loro, di danze sui selciati, negli spiazzi aperti fra le macerie, nei cortili delle case popolari, nella Galleria che le bombe hanno scoperchiato. In canottiera, in abiti di cotonina rivoltati».
“Andandosene altrove” Roberto Calasso lascia un grande insegnamento e un invito per il futuro.
L’insegnamento è che si può diventare editori per moltitudini di lettori con la curiosità, l’amore per il sapere, la certosina ricerca del valore letterario anche dove le opere nascono lontane dai dettati commerciali.
Imprevedibilità, estro, intuizione e colpi di genio, ma anche cura estrema, eleganza, precisione. E la padronanza del tempo, perché i libri ticchettano diversamente dagli orologi.
L’invito è di continuare con calma, con pazienza, anche noi piccoli che ci siamo seduti alla sua ombra, all’ombra di un gigante.
Non è un caso che il typeface delle collane di Miraggi sia il Baskerville: l’abbiamo scelto per omaggiare lo stile inconfondibile delle creature di Roberto Calasso.
Miraggi si è ispirata senza nasconderlo. La realtà è fatta di ogni visione. Grazie.
“Si può guardare dentro di sé in due modi, uno alla Montaigne, che è quello di guardare dentro con lo sguardo da fuori. L’altro, di non avere più nessuno sguardo esterno per guardarsi, e tu diventi il tuo buco nero, che ti attira inesorabilmente e diventa un abisso senza fine”. Se la ragione di tanta cattiva produzione letteraria è che gli autori si illudono che fare della terapia psicanalitica basti per scrivere un romanzo autobiografico, nel libro di Curti, Quando i padri camminavano nel vuoto – segnalato nel 2016 dal Comitato di lettura del Premio Calvino – troviamo esattamente il processo contrario: l’autore sa fare della bella letteratura, e questo affilato strumento gli serve, inevitabilmente, per indagare nei ricordi, riscrivendo la propria infanzia e risolvendo nella tessitura del romanzo tante ossessioni che lo perseguitavano da bambino. Scopriamo così che la sua più grande paura, quella di non saper distinguere i vivi dai morti, si è trasformata nella sua dote più grande di scrittore: saper riportare in vita tutti i suoi morti, in particolare suo padre e quei padri spirituali che con lui ha condiviso. Nelle righe del romanzo, la vita si decanta, si filtra attraverso una ammemorazione sentimentale, e ne rimane un distillato liquoroso e denso. Le più belle pagine di Curti richiamano alla mente autori come Romain Gary o Manuel Vilas, che hanno raccontato i propri genitori dosando tenerezza, ironia e disincanto. Lo scrittore descrive in lunghe pagine l’ostinazione del genitore, insegnante e intellettuale, a scrivere in latino, a trovare per tutto una verbalizzazione, guidato da una fede incrollabile nel potere della parola: scegliere le parole per addomesticare la realtà è l’unica forma possibile di vita, l’unico espediente per procrastinare la morte.
È un lascito gravoso da raccogliere, per un figlio, e il giovane Curti lo sa bene quando decide di studiare fisica, invece di seguire il richiamo forte della poesia. Tuttavia certe vocazioni non possono essere tradite, e anche i problemi matematici possono diventare narrazione e viceversa. D’altro canto, da uno dei suoi maestri d’infanzia ha appreso un altro stratagemma per depotenziare la morte: usare i numeri, invece dei nomi, per separare già in vita l’anima dalla sostanza corruttibile. Così un’altra ossessione del piccolo Piergianni, che fissa le lancette orarie dell’orologio per percepirne il moto, è diventata un’arma di Curti scrittore e matematico: saper fermare il flusso continuo della durata in attimi discreti, in appigli per non essere trascinati via. L’instabilità, infatti, è uno dei temi che più emergono: a partire dal titolo, l’autore ci descrive il difficile passaggio di epoca e di generazioni del secondo dopoguerra, in cui le certezze faticano ad affermarsi e gli adulti quanto i giovani annaspano alla ricerca di un’identità: tutto sembra ambivalente, passabile di più definizioni, tutto è cedevole e malsicuro per chi, come il padre dell’autore, fatica ad accettare etichette ideologiche.
Quando i padri camminavano nel vuoto, allora, è anche un romanzo storico, in filigrana, e un profondo romanzo di formazione: non solo dell’autore bambino, bensì anche, parallelamente, di suo padre: entrambi si educano a restare orfani di padri spirituali, entrambi imparano a diventare genitori l’uno dell’altro, e di se stessi. Nelle prime pagine del romanzo, vedendo una foto sbiadita del padre, Curti ne riconosce “lo sguardo serioso dei predestinati alla speranza”. È questa, forse, l’eredità più preziosa che ha ricevuto. Luigi Pintor, ne La signora Kirchgessner, riporta la frase di un anonimo secondo cui “si può essere pessimisti riguardo ai tempi e alle circostanze, riguardo alle sorti di un paese o di una classe, ma non si può essere pessimisti riguardo all’uomo”. La predestinazione alla speranza è una condanna alla ricerca, e forse all’insoddisfazione, perché deve leggere dei segni che restano nascosti allo sguardo pigro e alle facili schematizzazioni. Tuttavia, è anche il dono della grazia, perché ha reso la sua scrittura acuta e capace di infinita indulgenza, ha dato spirito all’ironia e gli permette di trovare nel passato, nei morti e nei vivi, ricchezze inesauribili di senso. Da lettori, ciò sia anche un augurio per la prosecuzione del romanzo, che l’autore ci ha promesso e a cui sta già lavorando.
Angelo, spiegaci un po’ il titolo Santi, poeti e commissari tecnici.
Il titolo della mia raccolta è anche il titolo del primo racconto, che poi è l’ultimo che ho scritto, e l’ultimo figlio è quello a cui vogliamo più bene. Ma è un racconto che non parla davvero di calcio, credetemi. Parla di donne, d’odio e d’amore, di quanto noi uomini siamo schifosi, anche se tutto ciò viene fuori a poco a poco, tra un gol, una risata amara e un calcio d’angolo. Ditemi un po’, questo paese popolato da santi guaritori, poeti pubblicati a pagamento e commissari tecnici da bar, da masnadieri che sanno solo fischiare i calciatori di colore, non ha stufato pure voi?
Abbiamo spesso il mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo” : perché secondo te ci si identifica in vite così lontane dalle nostre?
Bella domanda, ma io sono un ex tifoso, ho raggiunto la pace dei sensi. La verità, secondo me, è che questa è una religione con tutti i relativi apparati, leggende, storielle e supereroi, tra cui anche il mito del campionato più bello del mondo. Gli italiani non sono cattolici, quella è un’abitudine; e dopotutto non conosco quasi nessuno che abbia letto la Bibbia. Ma se quasi nessuno di noi ha mai letto la Bibbia, come possiamo definirci cristiani? L’unica vera religione italiana è il calcio. Non è solo identificazione, è idolatria vera e propria. È una fede. Il tifoso non tradisce la squadra, ma tradisce la moglie o la fidanzata. Io invece ho tradito un sacco di squadre e nel corso di questi anni, per esempio, ho tifato per tutte quelle allenate da Znedek Zeman l’eretico e non ho sensi di colpa.
Raccontaci il goal mancato e il sogno infranto che ti hanno fatto soffrire di più.
Avrei dovuto fare studi scientifici e perseguire i miei veri interessi e la mia vera natura. Invece ho ripiegato sulla cultura umanistica, sulla noia intesa come moralità, sul sacrificio per motivi risibili, sulla brutta letteratura fatta di “bello scrivere”… poi per fortuna a un certo punto mi sono imbattuto nel mio amore di gioventù, la fantascienza, l’horror, il fantastico in generale, da Tommaso Landolfi a Terry Pratchett passando per tanti altri autori non del tutto canonici, e la vita è diventata meno tetra.
Tre aggettivi tre con cui descriveresti la tua opera.
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