
«Il quarto piano» di De Gennaro libro del giorno a Farhrenheit
26 agosto 2024
Ascolta la puntata di Fahrenheit su Raiplaysound dedicata a Il quarto piano di Riccardo De Gennaro.

26 agosto 2024
Ascolta la puntata di Fahrenheit su Raiplaysound dedicata a Il quarto piano di Riccardo De Gennaro.
di Giorgio Mascitelli
Il cimitero delle macchine (Torino, Miraggi, 2024, euro 26) è il secondo romanzo di Sergio La Chiusa, anche se, come precisa l’autore nella nota alla fine del libro, la sua ideazione precede I Pellicani risalendo al biennio 2003-05 e avendo poi vissuto una serie di rielaborazioni e riscritture anche in tempi più recenti. In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine; ora al lettore di La Chiusa un paesaggio del genere non giungerà affatto sorprendente, ma se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza. Ovviamente, come sa ogni milanese salvo quelli onorari, anche a Milano ci sono posti del genere, del resto l’immaginario futurista della città nasce da quelle tre piazze e quattro vie che oggi ricorrono in tutti gli spot pubblicitari, ma il tema della rappresentazione di La Chiusa non è di ordine geografico né sociale, perlomeno nel senso ristretto e immediato che tale aggettivo prende nella narrativa realistica di denuncia. In La Chiusa la rovina è la concretizzazione spaziale della natura della civiltà contemporanea e della dimensione psichica dei suoi abitanti. Se “La visita delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce talvolta a ritrovare” (Marc Augé), le rovine di La Chiusa in realtà non hanno alcuna funzione di recupero e di rievocazione e non sono nemmeno macerie che non hanno fatto in tempo a diventare rovine, al contrario esse sono perfettamente funzionanti, come dimostra il fatto che sono fittamente popolate. Si direbbe quasi che sono state progettate per essere fatiscenti come i carceri di Piranesi, infatti esse sono regolarmente previste dal funzionamento standard del potere e questo ne rivela la natura allegorica della situazione storica contemporanea, in cui sia le città sia i rapporti tra gli uomini sono malfunzionanti e tendenti al degrado perché sono state progettati e promossi per una finalità diversa da quella di un’armoniosa vita collettiva.
In questo spazio devastato si muove Ulisse Orsini. Egli è un disoccupato, disadattato che appartiene alla stirpe degli Ulissidi, ma più che al capostipite deve qualcosa al fondatore del ramo moderno della famiglia, quel Leopold Bloom di Dublino, con il quale se non altro condivide una qualche propensione a scorgere, nella veglia e nel sonno, epifanie della bellezza in questa realtà desolata. Ulisse incarna il tipo del fuggiasco, è un fuggiasco assoluto per così dire: dapprima resosi conto di essere ormai un emarginato fugge dalle ambigue istituzioni che il mondo predispone per coloro che non ce la fanno oppure è costretto a fuggire da casa sua e da altri luoghi; quando arriva nel cimitero delle macchine dove trova altri emarginati come lui, non molla mai la valigia e si pensa provvisorio, anche perché scopre a sue spese la verità del vecchio detto di Trotzky che è più facile morire in nome dei proletari, che qui potremmo parafrasare con reietti o appunto emarginati, che viverci assieme. In Ulisse è talmente connaturata la tendenza alla fuga che perfino quando partecipa a una dimostrazione per riformare il mondo, superando per una volta le proprie inclinazioni individualiste, viene messo in fuga dalle forze dell’ordine costituito. E questa tendenza spiega anche il finale, che per comprensibili motivi non posso anticipare qui.
Al protagonista capita di assistere nella discarica ai disperati tentativi di un bassotto di avere un coito con una cagna maremmana, destinato a fallire comicamente nel suo intento per le ostensibili differenze di taglia. In qualche modo in questa immagine vi è condensato lo scarto tra aspirazioni a una vita degna di essere vissuta e opportunità di viverla per davvero. Eppure questa immagine solleva lo spirito di Ulisse perché la vitalità del suo scopo sembra assegnare un senso a un mondo in cui anche il senso appartiene a pieno titolo alle rovine. Analogamente l’entrata di Cristo a Milano non è destinata a riprendere il racconto evangelico, come invece l’entrata a Bruxelles nel dipinto di Ensor che La Chiusa cita esplicitamente nel testo. Qui Cristo è accolto dalle autorità cittadine, trattato come celebrità per il quarto d’ora di sua spettanza e poi rapidamente dimenticato senza bisogno di alcun tradimento o voltafaccia della folla. Il racconto evangelico perde di senso nella società dello spettacolo.
Il romanzo è narrato in terza persona con cambi di focalizzazione e addirittura in alcuni passi con un cambio verso la prima persona plurale, quasi che il narratore onnisciente ci suggerisse la sua identificazione con il protagonista. Inoltre sono presenti inserti metanarrativi in cui il narratore rompe deliberatamente la finzione del racconto apostrofando il lettore. Tutte queste sono procedure, come nei classici del modernismo, volte a creare un rapporto di straniamento. Il problema non è qui fare una storia ben narrata che spieghi un po’ di tutto e un po’ di niente, ma di offrire squarci e agnizioni sul presente, quasi dei flash che illuminano frammenti di paesaggio nella notte e questo spiegherebbe perché in questo autore è presente un forte immaginario pittorico non solo in termini di citazione colta, ma di dialogo con alcuni grandi della nostra tradizione (il già menzionato Ensor, Botticelli, il prediletto da La Chiusa Brughel ecc.). Verrebbe da dire che nel romanzo ciò che conta non è il soggetto, ma lo sguardo doloroso che Ulisse grazie al chiaroscuro della scrittura di La Chiusa volge sulle persone e sugli oggetti senza mai distogliere gli occhi. Tutto questo iscrive Il cimitero delle macchine nel campo della letteratura inattuale, eppure quell’inattualità è la verità della letteratura ossia la capacità di gettare uno sguardo sul presente libero da quelle ipoteche culturali e psicologiche che la società getta su se stessa nella forma dell’ideologia se non della menzogna. E questo libro è oltremodo vero.
Il viaggio ferroviario, potente metafora dell’esistenza che potrebbe richiamare alla mente Moska-Petuškì di Venedikt Erofeev, o ancora La freccia gialla di Pelevin, fornisce il ritmo narrativo a Io sono l’abisso, prima opera di Lucie Faulerová a essere tradotta in Italia. Una scrittura onnivora, densa, carnale e affabulatrice non immemore della peculiare esperienza poetica di Hrabal; una sorta di monologo joyciano nel quale la parola scandaglia il reale con implacabile lucidità. Pensieri e ricordi si susseguono, trovano corrispondenze analogiche in un flusso travolgente e ininterrotto. Una confessione di estrema crudezza, ma anche percorsa da un afflato profondamente umano e mitigata da un umorismo tipicamente ceco.
Il titolo italiano proviene da un brano estratto dall’interno del testo, ed evoca inquietudini mitteleuropee. Se, come scrive Thomas Bernhard, “i nostri interlocutori cercano sempre di spingerci contemporaneamente in tutti i possibili abissi”, Faulerová espone al nostro sguardo le prospettive più vertiginose della propria anima. Il titolo originale, che letteralmente significa Ragazzamorte, ci introduce in una realtà costantemente sull’orlo del baratro. Tirando fuori dall’acqua un fantoccio che rappresenta Morana, la dea della morte nella mitologia slava, la protagonista Marie compie un gesto di sfida, una ribellione nei confronti dell’incomprensibile. Le continue allusioni alle differenti modalità del suicidio pongono l’accento sugli aspetti pratici e crudi del gesto. Residui del mondo infantile balenano nella narrazione.
La protagonista vorrebbe imparare a scomparire, come un mago, per scoprire il segreto dell’esistenza. Svegliarsi a volte è piacevole, perché si resta per un istante sulla soglia del nulla. La visita al planetario pone interrogativi impossibili sull’universo. “Il serbatoio di domande e misteri era inesauribile”, scrive Faulerová. “Dio misericordioso, quanti misteri ci sono al mondo”, scrive dal canto suo Erofeev. Anche l’individualità, sempre sul punto di sgretolarsi, appare un enigma. “Ma io chi sono da sola?”, si chiede Marie cercando di collocarsi in prospettiva con gli altri. Il suo cercare un contatto fisico nella folla anonima è un gesto per affermare la propria esistenza. Il nulla è una minaccia costante. La paura è quella di svanire, come la ripresa illeggibile di una telecamera di sorveglianza. “Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono soltanto un’imitazione”, si chiede angosciata la protagonista.
Il viaggio si rivela faticoso, fantasmagorico, irto di immagini speculari e prospettive illusorie che confondono i sensi. Le facili teorie, che presumono di avere una spiegazione per tutto, vengono demolite con corrosiva ironia. Il senso di colpa per non aver saputo impedire il suicidio della sorella e le tragiche vicende familiari sono l’occasione per una narrazione totalizzante sul senso dell’esistenza. Decidere se cercare di sopravvivere, a qualunque costo, o punirsi lentamente, o farla finita per sempre è un dilemma che lacera la coscienza. “Ed è come se avessero tirato via la tovaglia dentro di me, e tutti i piatti cadessero a terra frantumandosi in milioni di minuscoli cocci”, una immagine magnifica che ben definisce la peculiare voce di Faulerová, la sua capacità di far presentire la fragilità, il carattere effimero della nostra esistenza.
di Maurizio Di Fazio
Ada Sirente segnalata col suo Duramater tra le «quattro autrici per l’estate: dal ‘taccuino’ alle voci degli expat, ecco i libri da portare con sé»:
Vanta natali abruzzesi anche Ada Sirente (il nome è d’arte), autrice di un libro straordinario come Dura mater (Miraggi Edizioni), sperimentale e intriso di un post-stream of consciousness, palpitante di preziosa poesia. Mariella è nel letto numero 5 della terapia intensiva. Una cicatrice demarca il confine tra un limbo di visioni e la realtà che le sfugge. È in coma farmacologico, operata al cervello. Dubita di sé, non riesce a ricostruire gli eventi. Una cicatrice separa anche i suoi due luoghi: Roma, un fondale di carta, e l’Abruzzo, la sua terra antropologica. Miscelando un affilato argot medico e corruschi tratti lirici, alla fine la strada da percorrere è una sola: quella del capetiempe dei contadini abruzzesi. Il ripartire sempre daccapo insieme al volgere delle stagioni, sublimando il dolore delle sciagure: quelle individuali, quelle collettive di terremoti e frane.
QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/465axkd2
a cura della Redazione Cultura
“Il quarto piano”. Un uomo in fuga nei libri nel romanzo di Riccardo De Gennaro
Giorgio Lanfranchi è un cinquantenne del nostro tempo: non si è mai sposato, non ha una fidanzata, non lavora e vive con gli anziani genitori, una madre succube e un padre estraneo e burbero. La sua realtà è rappresentata dai libri, che ama e che acquista compulsivamente.
È lui il protagonista dell’ultimo romanzo di Riccardo De Gennaro, Il quarto piano, appena pubblicato da Miraggi Edizioni nella collana Scafiblù.
Una sera, in attesa della misera cena in famiglia, Giorgio esce rabbiosamente di casa, diretto in libreria, un posto che frequenta sin da ragazzo e che un paio di volte a settimana chiude molto tardi, un rifugio e una prigione. Qui il “?nostro eroe?”, così lo definisce il narratore, concede libero sfogo a manie, idiosincrasie, frustrazioni e accessi di rabbia apparentemente ingiustificata. Sperimenta però anche rari attimi di autentica condivisione umana e di pensiero con Maria, unica commessa con cui Giorgio senta di avere qualcosa in comune.
Quella sera, alla cassa, Giorgio si troverà però di fronte Laura, la compagna di classe di cui era segretamente innamorato. Sono passati ormai più di trent’anni dai tempi del liceo, ma l’incontro inatteso genererà in Giorgio uno stato di totale confusione in cui realtà e desideri confluiscono in un magma di pensieri e allucinazioni da cui, forse, non saprà più uscire. Una realtà inabitabile, una fuga nei libri e nell’immaginazione e un un finale fantascientifico.
Riccardo De Gennaro è nato a Torino. Per oltre vent’anni ha lavorato come giornalista dapprima al Sole-24 Ore, poi a Repubblica. Dopo il noir I giorni della lumaca(Casagrande, 2002), ha pubblicato il romanzo La Comune 1871 (Transeuropa, 2010), il libro-reportage Mujeres. Storie di donne argentine (Manifestolibri, 2006) e la prima biografia di Lucio Mastronardi, La rivolta impossibile (Ediesse, 2012).
Nel 2005-2006 è stato direttore di Maltese Narrazioni. Ha fondato e dirige il trimestrale il Reportage, giunto al suo 24° anno. Collabora come critico ad Alias, il supplemento culturale del Manifesto. Con Miraggi edizioni ha pubblicato il romanzo La realtà pura(2018).
QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/2z5xnnaz
di Valeria Pasquali
Roma, anni ‘70-‘90. Marie divide un appartamento di quattro stanze, una comune, con alcuni compagni “rivoluzionari”: Pietro, Tommaso e Anna. Lei è una giovane ceca, giunta a Roma con la famiglia in fuga da Praga, dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, poiché il padre era un chimico e intellettuale dissidente. Dopo qualche anno, però, il padre di Marie sparisce nel nulla, lasciandola con la madre e la sorella. Nonostante le ricerche, non vi è alcuna traccia dell’uomo: si alimentano così le congetture sulla sua fine, tanto che la ragazza si convince possa essere stato rapito da una qualche polizia segreta. Al tempo della comune Marie insegna matematica in una scuola professionale di periferia, a stretto contatto con le classi sociali che dovrebbero beneficiare di quella rivoluzione di cui i suoi amici parlano tanto, ma che a lei in realtà sembra solo risolversi in gesti gratuitamente violenti. La ragazza inoltre intrattiene una corrispondenza con Pavel, uno storico ceco, amico del padre, con cui ha una relazione profonda, ma platonica. Pavel le ha chiesto di raccogliere il suo lavoro scientifico contenuto nelle diverse lettere che periodicamente le spedisce: la preoccupazione è che nel suo paese tali scritti, testimoni delle sue ricerche, verrebbero sequestrati dalla polizia. Marie allora funge da “cassetta delle lettere” per contenere e preservare il lavoro intellettuale di Pavel, con cui però vorrebbe avere una vera relazione sentimentale, fatta di parole e gesti concreti. Forse proprio per questo bisogno d’amore insoddisfatto, Marie ha una relazione con il giovane rivoluzionario Mels. Tutti gli uomini legati alla ragazza sono però destinati a rimanere lontano: Pavel a Praga, prigioniero di un regime totalitario, Mels alla ricerca della sua “rivoluzione” senza mai riuscire a fermarsi in un luogo, il padre in un passato che continua a essere presente…
Sylvie Richterová (Brno, 1945) è una scrittrice e studiosa ceca, trasferitasi a Roma dopo l’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei russi. Compiuti gli studi filosofici e letterari all’Università Carolina di Praga e a La Sapienza di Roma, ha assunto diversi incarichi universitari a partire dagli anni ’70. È autrice di saggi, di romanzi e di poesie. Si sottolinea il suo impegno politico durante gli anni del regime comunista che l’ha vista collaborare con numerosi intellettuali in esilio e dissidenti cechi. Le opere narrative della Richterová sono ritenute sperimentali per le particolari soluzioni narrative, dal momento che l’autrice sovverte le tradizionali coordinate spazio-temporali e moltiplica i narratori, togliendo al lettore certezze e stimolando contemporaneamente la ricerca di più significati. Nel romanzo Il secondo addio le questioni affrontate sono importanti: l’esilio con il conseguente peregrinare di chi è costretto a lasciare il proprio paese a causa di un regime totalitario; la ricerca del senso della Storia, ma anche dell’esistenza; la scrittura come espressione di autenticità e come unica eredità possibile. È in particolare la scrittura a essere il tema privilegiato: Marie, Pavel, Jan (il compagno della protagonista nel corso della storia), Tommaso scrivono e lasciano le loro parole a dei custodi che sappiano decifrarle, affinché il senso segreto della loro esistenza possa alla fine essere compreso. Forse il senso della vita è proprio la scrittura stessa e tutti i personaggi vivono in funzione di essa, poiché “le loro parole sono le tracce della loro esistenza errante”. Tale convinzione è evidente nell’articolazione a più voci del romanzo, dal momento che la narrazione non è univoca, ma si distende attraverso vari soggetti narranti che si alternano senza un ordine e una “gerarchia” di racconto. A parlare talvolta è Pavel attraverso le sue lettere, ma non solo; altre volte è Mels, alla ricerca esasperata di fissare le parole che sente fluire dentro di sé sulle pagine del libro che lui avverte urgentemente di dover scrivere. I personaggi, poi, così come le voci, aumentano o si sdoppiano, rendendo faticoso capire chi realmente stia parlando e da quale prospettiva (è un vero narratore? O qualcuno sta riportando le sue parole?). Alla fine, si deve far pace con l’idea di non poter per forza comprendere a chi appartengano le parole, accettando di seguire solamente le riflessioni universali che l’autrice vuole stimolare. In conclusione, anche il “secondo addio” del titolo è soggetto a più interpretazioni: può riferirsi al saluto definitivo alla città, Praga, lasciata e ritrovata dopo la fine del comunismo come una patria ormai impossibile, ma anche quello nei confronti delle ideologie, delle certezze, delle epoche vissute e private ormai di significato, rappresentate dalla “frontiera”, un tempo temuto luogo di morte, ora linea di semplice passaggio, priva di interesse.
QUI l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/il-secondo-addio
di Margherita Ghilardi, «Alias – il manifesto»
SCRITTRICI CECHE. «Il secondo addio», (Miraggi edizioni), primo romanzo di Sylvie Richterová a essere stato pubblicato non in samizdat, 1994: cortina di ferro e anni di piombo, una doppia prospettiva tra illusioni e stupore
Un «vivaio di fantasmi» e anche un’«arena di sortilegi» fu Praga per Angelo Maria Ripellino. Una «trappola che, se afferra con le sue brume, con le sue male arti, col suo tossicoso miele, non lascia più, non perdona». Si direbbe che respirino ancora gli stessi enigmi e gli stessi incantesimi nella Praga meno gotica ma più metafisica, quasi cubista in cui Sylvie Richterová allestisce lo scenario del suo quinto romanzo, il primo che ha potuto pubblicare non in samizdat, uscito in ceco nel 1994 e ora disponibile in italiano nella limpida traduzione di Alessandro De Vito con il titolo immutato Il secondo addio(Miraggi edizioni, postfazione di Massimo Rizzante, pp. 156, € 18,00). Dei tredici personaggi che abitano il libro, formandovi una sorta di scombinata famiglia stretta da legami d’amore, soltanto Pavel rimane avvinghiato a Praga, chiuso in un suo rassegnato isolamento «dietro i chiavistelli del tempo totalitario». Praga continua però a chiamare indietro dalla città in cui si sono rifugiati durante gli anni settanta, una Roma colorata e rumorosa che diventa il secondo sfondo della trama, sia Marie sia Jan, i cui differenti percorsi disegnano un ponte tra due luoghi del tempo oltreché dello spazio.
Richterová, nata a Brno nel 1945, a Praga si è trasferita nel ’63 per frequentare la facoltà di lingue e letterature moderne all’università. Nel ’71 si è stabilita in Italia, prima a Roma, dove ha insegnato alla Sapienza fino al 2009, poi a Trevignano Romano; grazie alla doppia cittadinanza ha potuto tornare spesso nel suo paese di origine anche prima della rivoluzione di velluto. Nasce dall’esperienza personale, benché Il secondo addionon sia affatto un libro autobiografico, quell’insolito, straniato ma acuto sguardo bifocale che l’autrice posa sulla vicenda mentre la narra. Non si tratta unicamente della doppia prospettiva geografica da cui la storia è osservata, piuttosto del duplice stupore che percorre l’intero testo. Sulla pagina l’assurdità del regime a cui si sottraggono Marie e Jan non risalta con minore evidenza rispetto alla follia di quei nostri anni di piombo in cui si trovano a costruire una nuova vita. Malgrado l’opzione di uno stile disincarnato e asciutto, l’atmosfera emotiva del testo è così incandescente da produrvi un ulteriore sdoppiamento, se lo stupore appare acceso sia dall’insensata violenza degli eventi sia dalla loro frettolosa rimozione. Il titolo stesso evoca un’accezione biforcata: l’addio di Jan, personaggio principale del romanzo e per buona parte suo narratore, è indirizzato tanto al suo paese di origine quanto a quello di adozione, alle speranze che si è lasciato alle spalle come alle illusioni che proiettava davanti a sé.
«I movimenti, i gesti, gli atti e i fatti, che costituiscono una storia, stanno in superficie. All’interno c’è il battito del cuore e il dolore che insiste su di esso, una grande domanda aperta come la mandibola di uno spazio nero, vuoto, in silenziosa attesa. Mi sto avvicinando al limite?» dice nel libro una voce che sembra appartenere a Jan. Malgrado l’apparenza Il secondo addio non è un romanzo sulla storia e nemmeno sulla memoria: piuttosto sulla coscienza umana e su ciò che accade quando la coscienza umana si spegne. La coscienza sembrerebbe rappresentare per la scrittrice l’unico luogo in cui ognuno di noi, a maggior ragione chi ha perduto la sua patria e la propria infanzia, può davvero ritornare. È significativo che il testo si apra con la descrizione di una casa in fiamme e che l’immagine della casa, persa cercata o ritrovata, attraversi percussiva tutte le sue pagine. Spazio percorribile in ogni direzione e in cui ogni personaggio può sentirsi accolto, spalancato ai venti ma protettivo, il libro stesso ha la forma di una casa. Perfino la scrittura sembra assumerne la funzione rassicurante in questo romanzo dove tutti i protagonisti scrivono, mosaico assemblato con lettere spedite o solo immaginate, note di taccuino, frammenti di biografie e saggi, spezzoni di manoscritti mai compiuti, dimenticati o smarriti, donati affinché siano custoditi. La scrittura soltanto, sembra dire la narratrice, può salvare i personaggi dalla dispersione della memoria, dalle amnesie di quella storia che pure hanno vissuto.
Più dei personaggi, privi del resto di qualsiasi connotazione fisica, contano infatti i legami, le parole e i pensieri che si scambiano: nel libro le loro voci si sovrappongono e disorientando il lettore si avvicendano in una sorta di corale prima persona. «I secondi non si susseguono nel tempo uno dietro l’altro, colpiscono come le punture di un ago acuminato, attaccano da ogni parte, come quando piove e c’è vento, ma non si portano via l’attesa, non riescono a lavare via nulla» riflette Jan in Che ogni cosa trovi il suo posto, romanzo con cui vent’anni dopo Richterová completa di significato la sua storia ribaltandone la prospettiva. Per Il secondo addio, la cui partitura ricorda il modernismo polifonico delle woolfiane Onde, l’autrice costruisce un’architettura ferrea benché in apparenza destrutturata, adotta una forma chiusa in cui però le sequenze possono essere scomposte e riordinate dal lettore come le tessere di un caleidoscopio. La trama procede per illuminazioni e soprassalti assecondando la memoria, si dispiega per poi arrotolarsi di nuovo alla maniera di un tappeto. Nel romanzo il tempo coincide esattamente con lo spazio narrativo.
Sylvie Richterová, volendo rubare gli aggettivi usati da lei per un’altra narratrice ceca, è «uno dei personaggi più eccezionali, innovatori e difficilmente classificabili della letteratura contemporanea»: in lei, le parole provengono ancora dal suo Ritratto di Vera Linhartová, «rigore e coerenza sono le qualità che più sorprendono» perché esse «conducono regolarmente a risultati imprevedibili o almeno imprevisti». Davvero grande scrittrice, Richterová racconta un trauma che non può essere narrato seguendo strade conosciute perché ogni strada esplode con quel trauma. La scrittura che sceglie per sé, edificando la sua casa, è il materico emblema, la figura stessa della libertà.
QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/sylvie-richterova-da-praga-a-roma-la-casa-e-la-coscienza
di Federico Prezioni
Titolo emblematico, tematica attuale, storia antica. No, non è una nuova puntata editoriale sul conflitto russo-ucraino o israeliano-palestinese che angoscia i nostri giorni, sebbene i due principali focolai del presente abbiano molta attinenza con i contenuti di questo libro. Malapace(Miraggi) è un romanzo nato dalla riformulazione di uno scenario storico non molto approfondito in verità tra i banchi di scuola. Parliamo della Francia della Repubblica di Vichy, argomento che l’autrice, Francesca Veltri, ha affrontato per ragioni professionali.
Come l’Italia, anche se per diverse dinamiche, la Repubblica transalpina era divisa in due parti durante la Seconda Guerra Mondiale, in un arco di tempo che va dal 1940 al 1945, ben più lungo rispetto alla separazione avvenuta di fatto all’indomani dell’8 settembre del 1943 sul territorio italiano. La parte meridionale della Francia, convenzionalmente chiamata Repubblica di Vichy, era di fatto un satellite del Terzo Reich sebbene si dichiarasse neutrale sulla carta. Dopo l’invasione nazista e l’occupazione del nord del paese, lo Stato francese aveva trovato un compromesso per sopravvivere in quanto entità politica e culturale, accettando una condizione di “malapace”, volendo estendere il titolo del libro al contesto storico fin da subito.
Fatte queste doverose seppure sbrigative premesse, il titolo dell’opera e l’ambito in cui la vicenda si snoda costituiscono elementi già sufficientemente precisi su cui incardinare qualche riflessione utile per il presente, perché in letteratura è necessaria una ricerca di natura esistenziale e spirituale: laddove l’attuale interroga il presente è necessario attingere al passato per poter arrivare a deduzioni più vaste e complete da parte della nostra coscienza.
Francesca Veltri ci guida in questo processo con ponderatezza, ma altrettanta decisione, e nel definire personaggi credibili, tra loro complementari eppure opposti, attraversa una serie di situazioni e stati d’animo talmente intricati da rendere così bene la tragedia che si consuma pagina dopo pagina. La Storia non può essere solo un fatto memoriale, si caratterizza per atti, azioni che in determinanti momenti vanno oltre le ideologie e le convinzioni personali. Pertanto non mi soffermerò sui caratteri principali dei protagonisti, preferisco lasciare al lettore l’onere di empatizzare con François, Antoine, Martine e Jean-Pierre; chi legge ha il diritto di regalarsi un giudizio pieno o parziale, riflettere doverosamente e vivere l’azione come se si svolgesse sulla propria pelle.
Da parte mia, invece, cercherò di addentrarmi nello spirito che caratterizza il romanzo e nella complessità che i contesti e le convinzioni personali generano, nell’intento di deragliare da un dibattito attuale dominato dall’opinionismo da talk show, più interessato a eccitare gli animi che a ragionare. Non è importante maturare immediatamente un’idea definita, questo non è un romanzo che intende osannare i vinti e crocifiggere i vincitori, ma è pur sempre un testo che ribadisce la labilità tra idea e coerenza al cospetto della necessità. Le parole di Francesca Veltri tentano di andare oltre determinate contrapposizioni, la Storia è terreno comune quando riesce a trovare, per quanto possibile, chiavi interpretative che sappiano infondere un senso di condivisione e appartenenza. Per certi versi tutti i personaggi del romanzo sono degli sconfitti, uomini e donne non privi di ingegno e di cultura, abitati da passioni incontenibili, da un senso di bene comune dai propositi nobilissimi. Eppure, qualcosa di più grande nelle loro vite incrina questo assetto di idee e i protagonisti si ritrovano a rivedere posizioni e lottare su postazioni divenute quasi irriconoscibili tenendo conto proprio dei presupposti iniziali. Si è spesso portati a ritenere che certi cambiamenti siano frutto del trasformismo e della convenienza personale, al contrario Malapace riesce a far emergere la perfetta buona fede delle parti, prigioniera nell’ineluttabilità degli errori dettati dalle contingenze, nonché dalle terribili conseguenze che il contesto politico e sociale impongono. Volendo trovare un parallelismo, oggi come allora ci si chiede se sia un bene sacrificare lo Stato, inteso come entità di valori e luogo di espressione collettiva, in nome di una non identificata sopravvivenza, chiamando con la parola pace un mero esistere. Ci si chiede se sia necessario ribadire i principi di libertà e combattere fino in fondo laddove le forze individuali e plurali possono arrivare o se non sia meglio cedere sul terreno dei diritti in funzione di uno stato di relativa quiete. Sono domande urgenti che da qualche anno a questa parte hanno ritrovato dimora nelle coscienze di molti. Mai come in questi tempi avvertiamo i confini sottili di una pace che in un nonnulla si converte in resa o addirittura prostrazione. Nulla di nuovo sotto al sole, è solo che a tali dinamiche del tutto comuni nella Storia ci eravamo disabituati per via di decenni di stabilità, crescita, fiducia e prosperità farcite da considerazioni storiche fatte con il senno del poi. Questo romanzo arriva a interrogarci su questioni delicatissime, sulla necessità di dover fare scelte dure, con consapevolezza e fuori dalla retorica nazionalista, pacifista o non interventista, andando verso le ragioni che spingono gli attori politici a muoversi e che determinano le misure del campo da gioco con o senza il consenso popolare.
Malapace non risparmia critiche alle dottrine politiche dell’epoca (i cui echi non si smarcano dall’attualità), non elude il processo di autocritica all’interno della trama in cui si muovono i personaggi: nello sfondo della vicenda si intravedono momenti dove le attuazioni delle utopie, nelle declinazioni più drammatiche, scuotono convinzioni granitiche mettendo a repentaglio valori personali, imprescindibili, e Francesca Veltri, atomizzando il proprio Io autoriale in varie creature letterarie riesce a entrare nel vivo di certi sentimenti attraverso una grande capacità di immedesimazione, strumento di cui la letteratura non dovrebbe fare a meno, in particolar modo in un’epoca in cui tutto viene polarizzato dall’esperienza personale e/o familiare, senza ricercare un senso più ampio dei contesti. In altre parole, si tratta di un romanzo che intende fare i conti con la Storia andando oltre le storie mettendo da parte la buona fede e l’appartenenza.
Termino questi spunti con un passo brevissimo, esempio di una capacità rappresentativa notevole da parte di Francesca Veltri, decisamente lucida e schietta nella narrazione, senza risultare tagliente in maniera forzata. La parte affilata di questa faccenda spetta al non detto, al silenzio, un invito a nozze per il lettore. A chi legge lascio le conclusioni.
«Immaginai Martine che usciva insieme alle SS da quella stessa porta, il cappotto sulle spalle perché all’Est avrebbe fatto freddo, un po’ curva sotto il peso della valigia, forse appena affannata, in viso la smorfia di sfida che le riusciva così bene. Mi chiesi se si fosse fermata a guardare per un attimo la donna che l’aveva venduta, prima che la portassero via.
Com’è che aveva detto a Jean-Pierre, in quel parco di Leningrado? Fammi vedere la faccia di quest’umanità per cui si fanno le rivoluzioni».
di Riccardo Cenci
L’immaginario multiforme di Bianca Bellová si esplica in declinazioni sempre diverse, testimoni di una irrefrenabile capacità inventiva. A metà fra le suggestioni della Tempesta shakespeariana e l’inesauribile affabulazione delle Mille e una notte, L’isola è un romanzo singolare, ricco di arcana fascinazione. Nel costruire una narrazione apparentemente lontana nel tempo e nello spazio, l’autrice parla in realtà del nostro mondo, dell’avidità che lo domina. Un luogo terrifico dove i più poveri rubano a chi ha poco o nulla. Come nel libro di Shahrazâd tutto origina da un tradimento: a Palermo una bellissima fanciulla ama un affascinante saraceno il quale le nasconde di avere moglie e figli in Oriente. Una volta scoperto il suo segreto la ragazza, distrutta dall’umiliazione, gli taglia la testa. Sin dall’inizio amore e morte appaiono indissolubilmente legati. L’oscura Signora si manifesta agli uomini come in una pellicola di Ingmar Bergman. Teste di bambini perduti spuntano dalla roccia, la bocca piena di muschio secco, le orbite degli occhi vuote. Processioni di flagellanti percorrono le vie cittadine, dove corpi in putrefazione e insepolti appestano l’aria. La peste nera è materia di racconti terrificanti. Patriarchi e congregazioni si azzuffano in terra Santa, adombrando i conflitti fra le diverse confessioni che ancora oggi lacerano i corpi e le coscienze.
Atmosfere pagane e cristiane si confondono a esaltare la complessità del caleidoscopio romanzesco. L’ombra del mito balena nell’apparizione del carbonaio cieco, mentre uomini con ali posticce cercano di prendere il volo come Icaro. La ricerca del caladrius, l’uccello che guarisce ogni male, ricorda il viaggio di Parsifal sulle tracce del Graal. La costruzione erratica conduce il lettore attraverso un labirinto narrativo: il mercante Izar, una lampada di vetro al collo che in realtà si crede essere la luce del Santo Sepolcro, solca i mari, attraversa le steppe accompagnato da uno stuolo di vichinghi, intesse narrazioni incredibili dilettando la principessa Nurit, sovrana di un regno in declino ereditato dopo la tragica morte del fratello demente. Il laudanum le ottunde l’anima e le infonde inusitata crudeltà. Abbandonata da Izar, si tormenta come Didone lasciata da Enea. Un Ragazzo senza nome, figlio di un raccoglitore di letame, non ama parlare ma canta come un cherubino. Vedere dal porto una vela tesa è per lui motivo di gioia. Sogna orizzonti avventurosi e mondi lontani.
Il tempo è il Seicento, epoca di scoperte e naufragi che già segnò la creatività del citato Shakespeare nella sua ultima fatica teatrale. L’isola è la Sicilia, ma è anche un luogo immaginario popolato di stregoni e creature fantastiche, descritto con sontuosità barocca e allegorica pregnanza. Verità e invenzione si mescolano, risultando indistinguibili. Izar tiene un diario nel quale si mostra tutt’altro che eroico, ma debole, stanco e insonne; gli avvenimenti si ammantano di una luce incerta. Una necessità intima lo spinge, anche se crede che nessuno mai leggerà quelle righe; eppure scrive per raccontare come si sono svolti i fatti, scrive perché “le storie ci salvano dalla miseria e dalle brutture di questo mondo”. Il racconto è esorcismo della morte, supremo incantamento, amuleto per orientarsi in una realtà che resta, nonostante tutto, incomprensibile.
QUI l’articolo originale: https://www.pulplibri.it/bianca-bellova-il-potere-della-parola/
di Martina Mecco
Miraggi Edizioni ha di recente pubblicato all’interno della collana NováVlna Ostrov (“L’isola”, 2022) di Bianca Bellová. L’autrice ceca arriva così al suo quarto romanzoin Italia, grazie al prezioso lavoro di traduzione di Laura Angeloni. In occasione dell’uscita, Andergraund Rivista ha deciso di pubblicare un’intervista con l’autrice, che ringraziamo per la sua disponibilità.
“Il mattino dopo all’orizzonte è comparsa l’Isola. Era inondata dal sole. Abbiamo attraccato prima del crepuscolo. Sopra il porto volteggiava starnazzando uno stormo di gabbiani.” (p. 20)
Bellová si è ormai costruita una fama internazionale raggiunta da pochi altri autori provenienti dal contesto ceco, dovuta soprattutto a Jezero (“Il lago”, 2016). Le sue opere sono caratterizzate da una cifra stilistica inconfondibile, uno stile schietto e una predilezione per la paratassi, che implicano una comunicazione diretta con il pubblico e un ritmo incalzante. Con L’isola avviene un’evoluzione nella prosa dell’autrice che, mantenendo lo stile sinora descritto, costruisce un intreccio diverso. A differenza de Il lago, ad esempio, la dimensione dell’isola ha una caratterizzazione più complessa, la costruzione di un contesto più articolato e preciso. Un altro elemento di novità è rappresentato dal vasto e stratificato impiego di riferimenti ad altri testi, dalle Sacre Scritture alle opere dei poeta mistico Rūmī, un ricorrere di rimandi che dona uno spessore diverso alla struttura del romanzo. Con ciò non si intende annunciare l’incalzare di una fase di scrittura “matura”, di cui in realtà l’autrice ha dato già prova nei suoi primi romanzi.
Un elemento costante corrisponde a una delle caratteristiche principali delle opere di Bellová: il suo profondo interesse per la dimensione umana, per la stratificazione psicologica dei suoi personaggi e il realismo con cui rappresenta le sue figure. Potrebbe sembrare un azzardo o un gesto ossimorico parlare di “realismo” in riferimento a un romanzo innestato su di un’isola situata a metà tra due generi che si rifanno piuttosto al fantastico, la distopia e la fiaba. Tuttavia, è proprio in questo dichiarato distacco dal reale che Bellová riesce a costruire una riflessione sulla contemporaneità, dando ancora una volta prova dell’incredibile efficacia del filtro letterario. Se ne Il lago era la mancanza di coordinate a ristabilire il contatto del lettore con lo spazio e il tempo, ne L’isola è la dimensione del fantastico a permettere una nuova interpretazione del reale. In assenza di qualunque soggettivizzazione della realtà, l’isola non è solo una metafora geografica o un’eredità utopica alla More, ma una chiave di volta per affacciarsi al convulso mondo ipermoderno immergendosi in una vicenda ambientata in un’era fuori dal tempo conosciuto.
Ci siamo dunque rivolti all’autrice, a cui abbiamo posto alcune domande circa la realizzazione e i temi racchiusi nel romanzo.
AR: Quando ho letto il titolo del suo romanzo, mi aspettavo una distopia, associando il titolo L’isola a Utopia di Thomas More. Come ne Il lago, abbiamo un elemento geografico attorno al quale si svolge la vicenda. Tuttavia, a differenza de Il lago, però, lei non ha creato una distopia, ma una storia che ha una predilezione per l’esotico e il mondo fiabesco. Come è nata l’idea di questo romanzo?
BB: Ho iniziato a scrivere L’isola con quando è cominciata della pandemia. Dato che vi erano caratteristiche comuni all’epidemia di peste, mi sono ricordata di un mio precedente racconto, Láska všechno překoná (“L’amore supera tutto”), e l’ho riscritto un po’ (qui lo si può ascoltare in italiano, probabilmente si può trovare in forma scritta). E poi la mia mente è rimasta su quell’isola. Il periodo della pandemia ha rappresentato una pausa dalla quotidianità che conoscevamo, all’improvviso eravamo in pericolo, un virus misterioso e invisibile poteva uccidere noi e i nostri cari, e noi eravamo isolati. Improvvisamente abbiamo riscoperto il potere delle storie e quanto ne abbiamo bisogno per comprendere il caos che ci circonda e che si maschera da mondo. Questa credo sia la vera storia che è racchiusa ne L’isola: un tributo a quelle storie che le persone si raccontano da sempre. Non la definirei una favola, ma semplicemente di una storia ambientata in un periodo storico, all’incrocio tra il Medioevo, quando era possibile incontrare l’uccello caladria, che aveva poteri magici di guarigione, e l’epoca moderna, un’epoca di esplorazioni e scoperte scientifiche. Essendo il protagonista un mercante di nome Izar, deve viaggiare in tutto il mondo allora conosciuto e raccontare storie di esso.
AR: Questo suo ultimo romanzo mi colpisce per la sua diversità rispetto ai precedenti, oltre che per l’enorme quantità di informazioni e di struttura lessicale (dal vocabolario marinaresco alle citazioni più erudite che utilizza). Qual è stato il lavoro preparatorio dietro un romanzo come L’isola?
BB: Essendo L’isola un romanzo scritto durante una pandemia, ho avuto molto tempo per leggere. Ho consultato libri scientifici come la Storia della morte di Ariès, oltre a varie fonti come leggende medievali, bestiari dei viaggiatori e la mitologia greca. Beh, la marineria mi interessa da moltissimo tempo e per me rapppresenta un simbolo del trionfo del coraggio umano e del desiderio di esplorazione sulla paura, sul pericolo e sugli elementi. Dopotutto, ho sposato un marinaio.
AR: Ciò che apprezzo sempre dei suoi romanzi è la sua capacità di creare un universo letterario che non esiste, ma che parla così bene della realtà da sembrare reale. Ne Il lago, c’era un mondo anonimo che dava alla storia un’universalità. In L’isola, abbiamo un mondo di fantasia ben definito e fiabesco. Non esiste, ma a differenza del mondo di Nami, ha delle coordinate. Qual è la funzione di questo filtro, di questa distanza che lei mette tra lei come autore (e successivamente il lettore) e la realtà? Permette di comprendere meglio la realtà?
BB: L’isola è ovviamente fittizia, anche se la mia editor se ne è occupata a lungo, finché non mi ha detto gongolando che sapeva già quale fosse l’isola, che supponeva si trovasse nel Mare del Nord, sopra Danzica. Mi piace che ogni lettore possa progettare ciò che vi troverà. Ma soprattutto è un modo per concentrarmi sulla storia, sui suoi personaggi e sui suoi schemi. Le realtà concrete, a mio avviso, allontanano il lettore dalla vicenda.
AR: Nei suoi romanzi manca sempre un finale positivo. A volte mi chiedo se leggerò mai uno dei suoi romanzi con un finale roseo. A parte gli scherzi, ricordo che qualche tempo fa ha detto che “il lieto fine la annoia”. Perché la annoia?
BB: Non credo che sia del tutto vero. I miei eroi, però, non si avviano al tramonto mano nella mano, ma devono sempre superare grandi ostacoli, a volte traumi, non hanno mai una vita facile. Tuttavia, cerco sempre di dare loro qualche soddisfazione. In questo senso, L’isola è la storia di riparazione a un grande torto, a un crimine. Izar torna sull’isola per espiare il suo grande fallimento e nel farlo trova sollievo dal rimorso che lo ha perseguitato per tutta la vita, anche se dovrà pagare un prezzo molto alto. Voglio dare ai miei eroi la possibilità di trovare la pace, una conciliazione, una soddisfazione.
Il lieto fine lo considero un imbroglio nei confronti del lettore, come una madre che colpisce con un lecca-lecca il ginocchio di suo figlio per impedirgli di piangere: il bambino si calma, ma non impara nulla e sviluppa una dipendenza dallo zucchero.
AR: Questo è il suo quarto libro tradotto in italiano da Laura Angeloni, il cui lavoro di traduzione è eccezionale. Qual è il suo rapporto con l’Italia? E con il pubblico italiano? E a cosa sta lavorando ora? Se si può dire 🙂
BB: Sì, Laura è eccezionale e quanto il nostro rapporto. Laura è come la sorella che non ho mai avuto, pensiamo allo stesso modo, ci commuoviamo e ridiamo per le stesse cose. Inoltre, è una traduttrice davvero straordinaria, al servizio del testo. Legge e traduce con attenzione, facendo revisioni a ripetizione finché non è soddisfatta. Mi fa molte domande per capire al meglio il testo e renderlo in modo autentico in italiano.
L’Italia è la mia Atlantide perduta. Credo di essere stata italiana in una vita passata, il che spiegherebbe perché mi ci sento così a mio agio e perché i miei libri risuonano con i lettori italiani più che altrove, persino più che nella Repubblica Ceca. L’Italia è l’unico Paese in cui è veramente possibile vivere: la lingua, il temperamento, il cibo, il paesaggio, l’architettura, il senso estetico, tutto è unico. Mi piace tornarci spesso.
Di recente, ho trascorso quasi tutto il mese di ottobre in clausura nell’appartamento di Sanremo del mio caro editore Alessandro de Vitto, di Miraggi Edizioni. Ho passato quel periodo a scrivere il mio nuovo romanzo, Neviditelný muž (“L’uomo invisibile”), che uscirà quest’anno.
Apparato iconografico:
Immagine di copertina: su suggerimento dell’autrice https://www.hostbrno.cz/nakladatelstvi/pro-media/?fbclid=IwAR2u4fQKWidJ4vjN_b8u0463EQ6-gMdCarNj8_BbqG7Tm_kKSHY8MG3VqLE_aem_ASGc7TR6IWI2TJS93EAeidq_S-rn3Y5IFLbsAU5rKSmOklKAujvC_Va-A-UTmRra8zu0idgEYrzB10a21pYZ-Be- © Marta Režová
Qui è possibile trovare un’intervista con l’autrice relativa a Il lago, pubblicata da Est/ranei. Sempre su Est/ranei è possibile leggere la recensione a romanzo senti/mentale.
QUI l’intervista originale: https://www.andergraundrivista.com/2024/04/05/litalia-e-la-mia-atlantide-perduta-una-conversazione-con-bianca-bellova-sul-suo-ultimo-romanzo-lisola/
“Il Richiamo del dirupo” è il romanzo d’esordio della scrittrice torinese Mìcol Mei, Genere: narrativa. Pubblicato per la casa editrice Miraggi Edizioni, “Il richiamo del Dirupo” racconta di un ambiguo propietario e della sua villa a picco sul mare, “Il Pallido Rifiugio” dove una combriccola di intrepidi ma problematici personaggi cercano salvezza dalla mestezza delle proprie vite. Per conoscere meglio la storia e i progetti dell’autrice l’abbiamo intervistata per L’Opinionista.
Se fosse possibile modificherei ogni singola cosa che abbia mai scritto in vita mia. Sarei come uno di quei pittori che aggiungono o tolgono qualcosa al colore all’infinito. La perfezione non è interessante, come scrivo nel libro, è terribile. L’unica cosa su cui sarò sempre d’accordo con me stessa è l’autenticità nel comunicare.
Tutto ciò che scrivo e firmo è figlio mio, certe ingenuità col tempo si perdono, si sviluppa uno stile e un percorso nella propria narrazione e certamente guardando indietro si osserva come un maestro il lavoro di un allievo. Per diventare bravi c’è solo una cosa da augurare che ci capiti: invecchiare.
Credo che la differenza tra un autore che continua a fare questo mestiere e uno che invece lascia perdere stia proprio nella perseveranza. Il talento è fortuna come diceva Woody Allen, per cui al mondo ci saranno moltissimi autori di talento che non hanno ancora avuto la loro occasione. L’unica cosa che conta veramente è crederci, sapere incassare e fidarsi delle persone giuste.
Il mio punto di vista sulla ‘speranza’ riguarda ciò che definisco ‘alibi’, traslitterando liberamente e modestamente Pasolini. Detesto il pensiero di non agire ma attendere che Tizio o Caio intervengano per risolvere le cose per conto loro. Penso che bisognerebbe sforzarsi di avere un po’ di coraggio nella vita e senso di responsabilità personale, per quanto duro sia da mettere in pratica.
Si tratta per l’appunto di rendersi consapevoli della propria vita.
No, come ho appena menzionato votarsi a qualcosa o qualcuno perché ci tolga dai pasticci lo ritengo vano. Comprendo i sentimenti che spingono le persone a cercare questo genere di conforto e giustificazione rispetto a ciò che non vogliono ammettere con se stesse, ma preferisco vivere sapendo di essere responsabile e talvolta spettatrice.
Tutti. Tutti loro sono una piccola frazione di me. Ogni personaggio riecheggia le mie cicatrici e i miei sorrisi. Tutte le mie storie sono la mia storia. Il mio debole per Thymian è però evidente.
Entrambe le cose. Prendo delle fette di vita e di esperienza e ci costruisco una casa sopra. Poi qualcuno ci viene a vivere e inizia l’avventura. La vita è finzione e la finzione è la vita, quello che raccontiamo sono storie e nelle storie raccontate c’è sempre del vero e del creativo.
Non posso essere obbiettiva quando si tratta di Chiara Fumai, perché la considero un genio ma sono troppo coinvolta emotivamente e individualmente per poter dire ciò che è più giusto su di lei. Grazie al cielo c’è chi è riuscito a farlo e sono Nero Editions con il volume a cura di Francesco Urbano Ragazzi, Milovan Farronato, Andrea Bellini, POEMS I WILL NEVER RELEASE: CHIARA FUMAI 2007-2017. consiglio vivamente a chi è interessato o anche solo vagamente incuriosito di cercarlo online o in libreria.
Ciascuno di noi giustifica la sua esistenza con ciò che significa più profondamente del resto, per me si tratta dell’arte e della curiosità, dell’imparare e scoprire, conoscere. Non ho potuto fare a meno dell’arte nella mia esistenza da quando ho imparato a camminare e ancora oggi è il leitmotiv della mia quotidianità. L’arte conta per tutti, solo che molti non se ne rendono conto.
I social sono un male necessario per arrivare alle persone e raggiungere chi può amare ciò che facciamo, io da un paio d’anni mi sono affidata a persone competenti per aiutarmi in questo e nella mia carriera più in generale. Mi auguro di poter continuare a spacciare cultura e bizzarria con le mie opere e non solo.
QUI l’articolo originale:
Lettera, come tassello di un alfabeto, o lettera come un veicolo per comunicare nei tempi prima delle mail, degli sms, dei whatsapp, dei tweet, dei post. C’è una bella storia su una lettera speciale, il fondamento del movimento della scienza per la pace. Si tratta della lettera che Albert Einstein spedì al filosofo Bertrand Russell, accettando di firmare il manifesto Einstein-Russell per la messa al bando delle armi nucleari. La storia racconta che Russell scrisse il manifesto e lo inviò ad Einstein perché lo firmasse. In attesa della risposta, in aereo da Roma a Parigi, apprese la notizia della morte del grande scienziato, un lutto mondiale, che per lui significava anche aver perso il cofirmatario di un appello di vitale importanza per il pianeta. All’arrivo in albergo lo aspettava però un plico da Londra, che conteneva la lettera firmata e inviata da Einstein prima di morire.
L’ultima lettera di Einstein per la storia è rimasta quella, ma per la letteratura è diventata un espediente, il nucleo di un romanzo sulla salvaguardia della specie umana, non solo dalla potenziale distruzione per via di un conflitto nucleare globale. Il romanzo si intitola appunto “L’ultima lettera di Einstein” e l’autrice è Daniela Cicchetta, per la casa editrice Miraggi Edizioni. L’ho conosciuta in presenza a Plpl2022, o meglio l’ho riconosciuta come una persona già incontrata chissà dove e chissà quando. L’autrice, in quell’occasione, mi ha regalato la parola sincronicità, che ha a che fare con il tema profondo del suo libro.
La parola significa letteralmente un evento fortunato, una scoperta fortuita, che nasce dalla coincidenza di fattori solo apparentemente casuali. E nel libro di Daniela Cicchetta, la sincronicità la troviamo in un mondo del futuro, nel quale, il ritrovamento di manoscritti originali di Albert Einstein, conservati segretamente e tramandati per generazioni fino all’anno 2190, potrebbe preludere alla realizzazione di una tecnologia capace di viaggiare nel passato e salvare il pianeta terra dalla sua autodistruzione.
“Una settimana prima della morte di Einstein”, scrive Daniela Cicchetta dando voce allo scienziato del futuro Marcel, “Russell gli aveva mandato la bozza di una dichiarazione a favore della collaborazione tra le nazioni per il disarmo nucleare che, senza il suo appoggio, non avrebbe di certo avuto la giusta risonanza. Mentre si recava a Parigi per incontrarlo seppe che era appena morto. Arrivato in albergo, però, trovò una lettera del fisico, con la quale aderiva all’iniziativa: ti rendi conto? L’ultimo pensiero di Einstein, l’ultimo suo atto pubblico è stato quello! Ovviamente i media gli diedero grande risonanza, la dichiarazione divenne nota come “Il manifesto di Einstein-Russell” e fu firmata anche da una decina di prima Nobel”.
Nel romanzo l’autrice riporta l’incipit del famoso manifesto: “Nella tragica situazione che l’umanità si trova ad affrontare, riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi per valutare i pericoli sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito del documento che segue. Non parliamo, in questa occasione, come appartenenti a questa o a quella nazione, continente o credo, bensì come esseri umani, membri del genere umano, la cui stessa sopravvivenza è ora in pericolo. Il mondo è pieno di conflitti, e su tutti i conflitti domina la titanica lotta tra comunismo e anticomunismo. Chiunque sia dotato di una coscienza politica avrà maturato una posizione a riguardo. Tuttavia noi vi chiediamo, se vi riesce, di mettere da parte le vostre opinioni e di ragionare semplicemente in quanto membri di una specie biologica la cui evoluzione è stata sorprendente e la cui scomparsa nessuno di noi può desiderare. Tenteremo di non utilizzare parole che facciano appello soltanto a una categoria di persone e non ad altre. Gli uomini sono tutti in pericolo, e solo se tale pericolo viene compreso vi è speranza che, tutti insieme, lo si possa scongiurare. Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. (…)” La trama potrebbe essere questa, se la storia avesse un andamento lineare. Ma l’autrice non intendeva raccontare di un mondo distopico, seppure in un certo senso lo fa, né scrivere un romanzo storico incentrato sull’impegno di Einstein per la pace e sulle sue posizioni spirituali nell’età della saggezza, per quanto anche di questo il romanzo narri, piuttosto l’autrice spiraleggia con la sua penna tra passato, presente e futuro, roteando attorno a un asse incentrato tra le rovine di Stonehenge.
Il personaggio perno della storia è una donna, Dunia, che tra quelle rovine capisce il senso delle visioni che l’hanno accompagnata fin da quando era bambina. Le visioni sono le vite di altre due donne, che lei accetta conoscendole e grazie a loro imparando a conoscere se stessa, fino alla sintesi estrema, che è poi il messaggio che io ho colto dal romanzo: sviluppare la capacità di ascolto al femminile è la via per arrivare a sentire la vita pulsare in ogni elemento del pianeta, uno stato talmente illuminato che lo si raggiunge solo attraverso molte vite votate alla ricerca di armonia con la vita stessa.
Einstein fu un fervente pacifista, a causa della comprensione profonda degli sviluppi tecnologici ai quali le sue scoperte rivoluzionarie avevano portato. E alla fine della sua vita dedicò quasi tutte le sue energie a tramandare l’idea di un pensiero scientifico capace di abbracciare anche la sfera spirituale come ambito di ricerca. Pur non sostenendo pratiche religiose, le sue idee aprivano la strada all’immaginario di una concezione del tempo che non avrà mai più una direzione prestabilita. E ancora oggi l’idea della freccia del tempo è in dubbio, così come l’idea che il tempo esista o che non sia piuttosto una nostra creazione mentale. L’espediente di un’ultima lettera, in cui Einstein abbia affrontato questioni sul tempo e sui viaggi astrali, questioni al confine tra la razionalità e l’emotività o il sentire del cuore, è secondo la mia lettura, il vero perno di questo romanzo. Attorno a questo ruotano i temi attuali della crisi della nostra specie, di un pianeta in bilico, ma capace di sopravviverci, e delle scelte che ognuno di noi può fare, per mettersi in ascolto della vita.
“«La senti l’erba crescere?» E io un giorno l’ho sentita”, racconta la protagonista del romanzo Dunia. “Ero sdraiata sul prato della casa in campagna dove giocavo da bambina, e mentre guardavo gli uccelli rincorrersi in uno spettacolo inconsapevole, la testa sprofondata nel tappeto verde, mi sono svegliata alla Natura. (…) Da quel momento nulla è stato più invisibile”. È questa la via indicata nel lontano passato dai druidi, per i quali “la Natura aveva un significato mistico”, continua, “intesa come manifestazione del mistero che ha dato vita all’uomo e all’universo. Non avevano bisogno di dei o religioni. Una ecospiritualità, ci pensi. Vivere in armonia con l’ambiente e tutte le forme della vita”.
Ma quando sarà possibile un cambiamento del genere? Viene da chiedersi leggendo parole che lo scienziato del Secolo Novecento aveva espresso già nel famoso manifesto. La sola risposta è adesso. Perché non c’è più tempo per esitare. Non c’è nella finzione letteraria, ma non c’è nel presente che ci è dato di vivere. “Non senti questo dolore del mondo?” riuona l’appello della protagonista al lettore. “Dobbiamo fare qualcosa, ma c’è sempre qualcosa che distrae, che non conviene e così si rimanda, in attesa che qualcun altro lo faccia al posto nostro. Come possiamo credere che il solo dichiararlo basti per attuare un cambiamento? (…) Il nostro futuro è oggi, il nostro passato è oggi. E oggi non c’è tempo ma è anche l’unico tempo per cambiare le cose”.
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