VIT[AMOR]TE è un libro di Valeria Bianchi Mian edito da Miraggi nel 2020.
Non vi aspettate un’interpretazione classica dei tarocchi, qui troverete percorsi, spunti, viaggi onirici in versi fatti di ricordi, parole, pensieri ritrovati in fondo ad un cassetto.
Valeria Bianchi Mian scrive in prosa e in poesia. Ama comporre e scomporre, giocare con i sensi e le consuetudini per poi destrutturare, arrivare a iperbole di pensiero nuovo, visioni di luci laterali, di nuove ombre, nuove spinte, nuovi percorsi nell’anima.
Psicologa junghiana ha esperienza di sedute, laboratori e altre realizzazioni dove cultura, psicologia, arte e teatro si incontrano. Al suo attivo diversi testi. Scrittrice poliedrica dalla personalità eclettica, veste i panni di narratrice, esperta, poetessa, pirata di cuore agitato, strega rivelatrice. Lo fa in mille modi, restando sempre se stessa.
Vit[amor]te racconta della potenza evocatrice delle immagini e di come queste vengano assunte nella simbologia popolare e individuale, diventando archetipo, riferimento, suggerimento, impulso.
I tarocchi per lei sono “bussola onirica e poetica”, dalle sfumature stratificate nella storia, a cui si aggiungono le altre sfumature personali, soggettive, interpretazioni legate al vissuto, alla valigia esperienziale di chi le guarda e le fruisce. Lei, quando conduce gruppi e laboratori espressivi dice di utilizzare “volentieri le carte e nella pratica immaginale questo strumento offre grandi possibilità creative” ed evocative, aggiungere io. Dunque, grazie ai tarocchi si arriva a “narrare fiaba in gruppo, interpretare storie corali e poesia”. Perché da lì si trae spunto per far volare l’anima, lasciandole parole libere.
Le figure dei tarocchi di Vit[amor]te – vi invito a notare anche il gioco di parole scomposte e ricomposte nel titolo, gioco che l’autrice mette da sempre in campo per divertirsi e ritrovare nuovi significati, nuove narrazioni – sono stati realizzati da Valeria Bianchi Mian.
Essi diventano il fulcro espressivo fatto di tracce, segni, colori. Immagini dunque capaci di indagare nell’inconscio e riportarci simbolismi repressi, nascosti, dimenticati, accantonati a forza. Vit[amor]te è un’opera completa che torna e riparte tra versi in poesia e percorsi introspettivi nella coscienza, tra eros, sogni, realtà, inganno.
Sinossi
Quarantaquattro poesie per ventidue originalissimi arcani maggiori: parole e immagini come gemelle in danza.
Scrivere e illustrare poesie è per l’autrice un operare quotidiano, attività ormai consolidata di sperimentazione e strumento nel suo lavoro di psicoterapeuta.
Dopo le poesie e le filastrocche del libro “Favolesvelte” (Golem Edizioni, 2015), Valeria Bianchi Mian ha pubblicato racconti, ha curato e illustrato un’antologia sul tema della ‘dimora’, ha scritto e fatto nascere il suo primo romanzo (“Non è colpa mia”, Golem Edizioni, 2017), ha partecipato alla stesura di tre saggi di psicologia in collaborazione con altri colleghi. In questa silloge raccoglie le poesie giovanili e quelle scritte tra il 2014 e il 2019; le fa procedere insieme alle figure dei tarocchi. È una Totentanz che passa dalla nigredo, l’Opera al Nero, e punta alla rinascita, è un cerchio di versi che si fa spirale attraverso i disegni.
Il filo conduttore di Vit(amor)te è l’idea della natura viva: è una bozza di verde, lo spunto generativo, il germoglio rigoglioso o la foglia secca, il respiro della terra sopra la quale camminiamo, natura che matura nella nostra psiche.
La storia del diventar se stessi comincia dal Matto incompiuto, un germe, il seme ritrovato; lo sviluppo per concludere con il ricominciar da capo.
È indubbio che la letteratura ceca contemporanea goda di ottima salute. Ne siamo informati grazie al meritevole lavoro della casa editrice Miraggi che ha pubblicato e pubblica testi di grande valore. E, sempre grazie a Miraggi, sappiamo che, nella letteratura ceca, gode di ottima salute anche la scrittura al femminile. Basti qui citare i libri di autrici ceche usciti negli ultimi anni per la casa editrice torinese: “Il lago” (2018) e “Mona” (2020) di Bianca Bellovà; “La corsa indiana” (2017) di Tereza Bouckovà; “Bata nella giungla” (2020) di Markéta Pilàtova.
Infine “La teoria della stranezza” (2020) di Pavla Horàkovà che prenderò, qui, in esame, tradotto da Laura Angeloni, una delle migliori traduttrici dal ceco che abbiamo in Italia.
Pavla Horàkovà è scrittrice, traduttrice, giornalista letteraria e radiofonica. Ha pubblicato una trilogia poliziesca per ragazzi; per quattro anni (dal 2014 al 2018) ha lavorato a un progetto radiofonico che ha avuto come soggetto l’esperienza dei soldati cechi al fronte durante la prima guerra mondiale, progetto da cui sono nati due libri; nel 2018 ha pubblicato la novella “Johana” insieme a Alena Scheinostovà e Zuzana Dostàlovà. Nel 2019, proprio con “La teoria della stranezza” ha vinto il prestigioso premio letterario Magnesia Litera.
Ma di cosa parla “La teoria della stranezza”? Forse è un frusto gioco di parole dire che “La teoria della stranezza” è un libro strano. Comunque non è solo un libro strano. È, soprattutto, un libro molto bello, coinvolgente, che ci induce a riflettere sui limiti della nostra razionalità.
Ada, la narratrice, è una ricercatrice dell’Istituto di Antropologia Interdisciplinare impegnata in una “strana” ricerca che ha per titolo: “La percezione soggettiva della compatibilità visiva reciproca”. Inoltre è impegnata nell’indagine sulla misteriosa scomparsa del figlio della sua collega Valerie Hauserovà, Kaspar Hauser. È durante questa ricerca che Ada si imbatte in strani fenomeni, in strani eventi che sembrano tutti connessi tra loro e che le fanno concepire una teoria che chiamerà “teoria della stranezza”. In questa sua ricerca Ada utilizzerà la fisica quantistica, la teoria olografica dell’Universo, si interrogherà sul paradosso dei gatti di Schrodinger.
Come si può capire da queste note sulla trama, la fisica quantistica assume un ruolo centrale nel libro. Possiamo allora domandarci, per allargare il discorso, come mai in questo periodo storico escano tanto romanzi che hanno come centro la fisica quantistica e escano tanti libri di divulgazione su di essa. Forse, dopo tanti strumenti teorici che abbiamo utilizzato per decifrare il mondo in cui abitiamo e che si sono rivelati inadeguati, come per fare un esempio, una certa vulgata marxista, siamo alla ricerca di un teoria che ci spieghi il funzionamento dell’universo. Abbiamo l’illusione che la fisica quantistica sia il grimaldello che ci serve allo scopo. Basterebbe, però, leggere i bellissimi libri di divulgazione sulla fisica quantistica di Carlo Rovelli per renderci conto che, sì, la fisica ci può dare la chiave per interpretare alcuni fatti e eventi del mondo che ci circonda, ma che è proprio la fisica quantistica a farci capire come il mondo sia molto più complesso di quanto noi non lo percepiamo.
Ada lavora nello “strano” Istituto di Antropologia insieme ad alcune colleghe e colleghi: Valerie di cui ho già parlato; Ivan Mrazek, che la intrattiene spesso con le sue “teorie edilizie”; Patrick Svàcek, conformista e arrivista; Honza Mikes che, dopo una bouffée delirante a sfondo paranoico verrà ricoverato in ospedale psichiatrico; la sorella di Mikes, Hana; Ales Drik, strano sperimentatore sul sonno che ha come cavia proprio Ada; il direttore Jirecek.
Tutti loro rappresentano una Praga che non è più quella della Primavera, che non è più quella della Rivoluzione di Velluto. È una Praga dove dominano gli arrivisti, dove domina gente senza più ideali, dove la cosa più importante è arricchirsi, fare carriera. È la Praga del neoliberismo imperante in cui Ada fatica a trovare una sua dimensione. Non è un caso che, qua e là nel libro, ci siano riferimenti alla storia recente della Cecoslovacchia, poi Repubblica Ceca, e alla psicologia dei cechi, un po’ come accade nel bel romanzo di Jaroslav Rudis “Grand Hotel” (Miraggi. 2019). Ne è un esempio la riflessione della madre di Ada che Ada è andata a trovare alla radio praghese per cui lavora, sulla provincialità dei cechi:
“Secondo mia madre la provincialità riflette l’atmosfera generale del nostro paese. Quando eravamo parte dell’impero austro-ungarico l’élite ceca, spesso bilingue e forte di un’educazione internazionale conseguita nelle metropoli europee, interagiva con una grande fetta di Europa e aveva una mente aperta. Ai tempi della Cecoslovacchia, pre e post bellica, operavano ancora persone che avevano viaggiato e si sentivano a loro agio in diverse culture. E pur puntando a un pubblico che ormai spaziava soltanto dalla città di As a quella di Cierna, manteneva comunque uno sguardo periferico anche sul resto del mondo. Con lo smembramento della Cecoslovacchia l’ambito si è ulteriormente ristretto. Come se per dispetto ci fossimo raggomitolati in noi stessi. Nemmeno l’ingresso nella Comunità Europea ha cambiato questa prospettiva” (Pag. 39).
Un altro esempio lo troviamo in un altro brano del libro. Qui Ada riflette sul carattere dei cechi:
“Noi oggi non abbiamo nemici esterni, ma il nostro continuo bisogno che qualcosa accada ci porta a intraprendere guerre nei nostri rapporti personali, oppure contro noi stessi.
È una cosa che i cechi possiedono all’ennesima potenza. Sono talmente tanti anni che non combattono armi in mano contro gli occupanti, che l’impulso frustrato di salvaguardare la propria vita e i propri averi si è trasformato in una malattia autoimmune. Non potendosi più opporre a un invasore esterno, hanno rivolto i loro meccanismi difensivi contro se stessi. Informatori, collaboratori, miliziani, agenti segreti, normalizzatori, Svàcek di ogni tipo. L’energia che dovrebbe essere rivolta verso l’esterno si è riversata all’interno” (Pag. 194-95).
Ho introdotto più sopra la madre di Ada, In effetti, nel libro, ci sono altri personaggi importanti oltre a quelli che gravitano intorno all’Istituto. C’è il padre di Ada, Karel, che avrà un ruolo fondamentale nell’economia del romanzo; c’è la sorella di Ada, Sylvia, primogenita e viziata; c’è il fratello Gregor, persona fuori dagli schemi; c’è Max, amico di Gregor, che avrà una storia con Ada; c’è il cane Bubàk.
Infine c’è Kaspar Hauser. Chi è Kaspar Hauser ne “La teoria della stranezza”? È un personaggio enigmatico, figlio di Valerie, che era stata a scuola con la mamma di Ada. È un personaggio enigmatico che si volatilizza, scompare, ricompare. Incerta la sua identità, non si sa bene cosa egli voglia dalla vita, almeno questo è quanto affermano quelli che lo hanno conosciuto. Pavla Horàkovà non ha scelto questo nome a caso. Sul vero Kaspar Hauser sono stati scritti moltissimi libri e articoli, è stato girato un bellissimo film da Werner Herzog nel 1974. “L’enigma di Kaspar Hauser”. Quando leggiamo non possiamo prescindere da tutto ciò e neppure dai brevi riferimenti storici sul misterioso padre di Kaspar Hauser che la stessa Horàkovà ci dà, per ritornare, poi, al figlio di Valerie:
“Riguardo al padre del trovatello di Norimberga del 1828 furono fatti diversi nomi di nobili, compreso Napoleone Bonaparte. Con chi ha avuti Valerie quel figlio illegittimo? Aveva forse una discendenza aristocratica da parte di padre?” (Pag. 56-57).
Che rapporto intratterrà Ada con Kaspar Hauser? Al lettore scoprirlo.
Questo ulteriore riferimento ad Ada mi permette di aprire una nuova parentesi: qual è la relazione tra autrice e narratrice? Ada narra in prima persona. A volte pare di cogliere che l’autrice sia la portavoce di Ada, altre che ci sia uno spazio in cui si differenziano e che Ada vada in piena autonomia, quell’Ada così insicura nelle relazioni d’amore, quell’Ada che va da una psicologa, Nora, anche lei un po’ “strana” e non propriamente ortodossa in quanto a setting, quell’Ada spesso depressa, quell’Ada che si scontra con fenomeni strani cha paiono tutti accadere nel distretto di Sumperk, quell’Ada che si rivolge alla fisica quantistica perché la realtà sembra sfuggirle da ogni parte. Pensando a Mikes, ricoverato in ospedale psichiatrico, guarda un video in cui un certo Dott. Quantum parla della fisica quantistica. La conclusione a cui la ricercatrice arriva è questa:
“L’elettrone si comporta in maniera diversa solo per il fatto di essere osservato. Quando avviene l’osservazione la funzione d’onda collassa. Da ciò si potrebbe dedurre che noi creiamo la realtà attraverso l’osservazione… E così mi convinco di aver causato io stessa le cose spiacevoli che mi sono accadute nella vita, col semplice atto di osservarle. Tutto esiste e allo stesso tempo non esiste, finché non lo guardo. E ciò dipende dalla mia convinzione pregressa sulla sua esistenza o inesistenza” (Pag. 149-50).
Nella bellissima e drammatica scena della visita al collega Mikes nell’ospedale psichiatrico di Bohnice, fatta con Valerie, confessa alla collega la sua paura di uscire di senno:
“Rifletto sulle situazioni in cui si sovrappongono due possibilità; su tutti i bivi che offrono una soluzione binaria. Dove mi avrebbe portato la vita, se quella volta avessi detto sì, o al contrario no. Al pensiero di tutte quelle biforcazioni mi si annebbia la vista. Confesso a Valerie che ho spesso la sensazione di uscire fuori di senno” (Pag. 255).
Il luogo in cui Ada cerca di chiarirsi, di dipanare i misteri, di svelare eventuali segreti di famiglia è la casa del padre. C’è una pagina in cui cita implicitamente Kant e che ha un afflato lirico che, per certi versi, è struggente. Mentre si legge risuonano in noi le pagine dell’ultimo libro di Carlo Rovelli “Helgoland” (Adelphi. 2020) sulla fisica quantistica, un libro in cui Rovelli sostiene che tutto è connesso, tutto è relazione, che la fisica quantistica è una scienza molto difficile e complessa.
Ancora una volta Ada arriva alla conclusione che tutto è connesso, che tutto è relazione, che noi vediamo le cose partendo dallo spazio e dal tempo in cui osserviamo. E struggente è il riferimento al cane Bubak e a quale potrebbe essere il suo punto di vista in questo mondo fatto di connessioni e relazionalità. Mi si scusi la lunga citazione, ma ne vale la pena:
“Guardo le stelle, poi un camion che passa, e per quanto ci pensi non riesco a decidere quale dei due sia il miracolo più grande. Quale dei due è il più assurdo, il meno probabile, quello che contrasta maggiormente il senso comune, quello che si oppone di più alla logica, qual è la sfrontatezza e impudenza più sfacciata? Il cielo stellato sopra di me, o il Mercedes di fianco a me? Assurda è l’esistenza in quanto tale. Dal punto di vista energetico sarebbe molto meno impegnativo se non esistesse niente. E questo rende la vita ancora più assurda. Tanto inverosimile è l’esistenza di Bubàk, un ammasso di amminoacidi, tanto lo è la mia, un raggruppamento degli stessi composti organici, e in più dotata di coscienza. Gli elementi che sono nei nostri corpi, come quelli utilizzati per la produzione e la trazione dei camion, derivano dall’esplosione delle stesse stelle che baluginano sopra di noi, solo molto più vecchie. Ogni fredda pietra porta con sé un potenziale di rinascita e in fin dei conti di autoconsapevolezza. La materia dispersa torna a unirsi, a ridisporsi, a prendere coscienza di sé, l’universo osserva se stesso con quadrilioni di occhi, medita su se stesso con miliardi di menti, denomina la realtà in migliaia di lingue, si contempla, inghiotte e rigurgita. Cosa sarà in gradi di vedere Bubàk, seduto accanto a me a osservare concentrato la strada, col suo sguardo bianco e nero? Quali angoli dell’esistenza percepisce, a me invisibili, con quelle orecchie perennemente tese, le narici che vibrano e soffiano? Esistono sincronicamente tantissimi mondi, quelli che ciascuna creatura vede, ognuna per suo conto. E’ questo che si intende per realtà parallele, o universi paralleli? Tutti gli universi che esistono in contemporanea nella consapevolezza degli esseri in grado di percepirli? E cosa risulterebbe se da tutte queste immagini se ne formasse una sola? Quale grandiosa composizione? Forse nessuna, forse tutto collasserebbe sotto il suo peso” (Pag. 285-86).
che cosa succederebbe se l’agrimensore K. del “Il Castello” e il gestore di motel Norman Bates di “Psyco” confluissero in un unico personaggio, dandosi appuntamento davanti a un palazzo con la parvenza di essere a metà strada tra i due immobili delle rispettive storie? E se Pellicani – questo è il nome del protagonista del romanzo di cui vi sto per parlare -, fosse vestito quasi come un’icona magrittiana, in giacca e cravatta, e con una valigetta si presentasse in quell’ora serale in cui ogni strepito si è già consunto e le voci di dentro prorompessero all’improvviso?
“i Pellicani”, di Sergio La Chiusa (Miraggi edizioni), ha l’impeto fragoroso di un atomo d’idrogeno, che è un gas con la molecola più piccola e più leggera, ma che si muove molto velocemente verso l’alto e riesce a penetrare materiali normalmente impermeabili. L’ossigeno detonante è la giusta miscela di tensione, onirismo, mistero, tragico umorismo contenuti all’interno di una sola stanza, quella in cui è coricato il padre del protagonista, irriconoscibile se non per il naso pronunciato, quasi un marchio di fabbrica della stirpe Pellicani.
Noi di Pellicani figlio sappiamo ben poco, il necessario a scatenare universi fantastici popolati da forme e parvenze umanoidi. Vent’anni prima l’uomo ha rubato dei soldi al padre e da allora non l’ha più visto; è andato via dal lavoro sottraendo articoli di cancelleria; ora deve partire per la Cina. Non sappiamo in che luogo si svolga l’azione ma non ne abbiamo bisogno, perché tutto ciò che occorre al La Chiusa-demiurgo risiede nella sua maestosa capacità affabulatoria e nella sublime proprietà stilistica che fa di “i Pellicani”, già finalista alla XXXIIesima edizione del Premio “Italo Calvino” (menzione speciale Treccani), un libro d’insuperata bellezza, l’esordio più maturo e elegante dell’anno.
Se non bastasse quanto detto sin qui, il lettore sappia che riconoscerà Collodi, Shakespeare, Borges e la tragedia greca venati da contrappunti comici, al limite del grottesco.
“… perché invece di sparire, […] c’incaponivamo a esistere nonostante il cambiamento dei tempi e i progetti di riqualificazione?”. “… a un tratto ebbi come l’impressione che il vecchio intendesse sbarazzarsi di me e per ciò si fosse messo a puzzare a tutto spiano e a perdere liquidi…”. È un romanzo sulla fine della Bellezza, sull’inevitabile degradazione e sul mistero insito nella natura umana. Il vecchio Pellicani non è più il povero demente sdraiato su un letto e accudito, all’inizio, da una giovane badante, ma è l’emblema di una società disorientata, depotenziata, inaridita, immobile. L’espediente narrativo è la miccia che innesca in realtà una più ampia fluttuazione esistenziale, in cui La Chiusa s’interpone da eccelso narratore, come per la grande letteratura, in cui non c’è niente da raccontare, ma che sconfina in quella zona ellittica e portentosa del pensiero che scuote per lungimiranza e immaginifiche metafore conoscitive le anime esonerate dall’armonia.
La vita moltiplicata è una raccolta di dieci racconti pubblicata da Miraggi Edizioni nella collana Golem dell’autore Simone Ghelli.
Fotogrammi in movimento: il significato del titolo
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Il titolo della raccolta, La vita moltiplicata, ha un significato che rimanda alla formazione cinematografica dell’autore. Difatti ricorda i celebri fotogrammi del cavallo in movimento ripreso dal fotografo Muybridge. Simone Ghelli pare voglia dirci questo: la vita è fatta di istantanee in movimento. Così anche ogni personaggio della raccolta è un cinematografo mobile di immagini e suoni.
Il titolo è dunque un’esortazione, come a dire che se questa realtà ci assottiglia, rende le frange della profondità sempre più piatte fino a ridurci a esseri superficiali, allora resta la possibilità di moltiplicarci sullo spazio. È solo in questo modo che ci è ancora permesso di muoverci: come fotogrammi in cerca della nostra profondità.
Il racconto L’ineluttabile
Con ogni probabilità il racconto che meglio rende l’idea sottesa all’intera raccolta è L’ineluttabile. Qui l’autore gioca in maniera equilibrata con elementi onirici e altri invece – sembrerebbe – autobiografici. La narrazione si svolge in un vecchio locale di Siena. Il protagonista è un ex-studente universitario, tornato per partecipare a un concorso per un posto come ricercatore. Mentre è lì solo, seduto a un tavolo, fa la conoscenza di un uomo quasi irreale, dai modi e dalle fattezze d’altri tempi e comunque familiari. Ne viene fuori un dialogo che scava e che indaga, per poi riemergere e lasciare il lettore alla mercé di un pugno di domande alle quali cercare di dare risposta, una volta che si termina la raccolta.
Quando, citando Deleuze, afferma che “bisogna che il cinema filmi non il mondo, ma la credenza in questo mondo”; oppure quando evoca la formula di Sant’Agostino secondo la quale esiste una simultaneità di presenti – un presente del presente, un presente del passato e un presente del futuro – pare che l’autore voglia raccontarci di una realtà, quella odierna, giocata tutta qui, su unico piano superficiale ma tricolore, proprio come la copertina dell’opera.
La nostalgia dei personaggi
C’è un elemento che abbiamo rinvenuto in tutti i personaggi di questa raccolta: la nostalgia per un tempo che non esiste più e che fa sì che ogni voce presente in quest’opera sia fuori sincrono, appartenga a un mondo che non è di questo tempo, è di un tempo passato o, per meglio dire, di un tempo che non è mai esistito perché abita nella sublimazione del sentimento nostalgico. A tal proposito, è emblematico il racconto L’ultima vetrina, già pubblicato sulla rivista Cadillac nel 2016 con un titolo diverso (E non venne più nessuno), nel quale l’autore racconta le vicende di un librario che preferisce la vita inventata dei libri a quella reale, un uomo che si sente “come l’ultimo pesce vivo in un acquario”. Anche in Compito di realtà il protagonista fatica a trovare la sua dimensione; una vita, quella del professor Iuri Bettalli, supplente presso un istituto comprensivo della provincia, che appare “fuori asse” negli ideali che cozzano con la realtà, soprattutto se questa poi si confronta con il punto di vista degli adolescenti.
Un accenno allo stile
Lo stile di Simone Ghelli è essenziale, privo di sbavature. Nessuna frase è lasciata al caso, ma è costruita per tendere al punto, al nocciolo di ciascuna narrazione breve. Gli elementi compositivi e il perno emotivo, al centro di ogni racconto, si integrano in maniera tale che le immagini narrative catturate dall’autore siano di grande equilibrio stilistico.
Grand Hotel di Jaroslav Rudiš è un romanzo particolare pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni, nella collana NováVlna diretta da Alessandro De Vito.
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Grand Hotel di Jaroslav Rudiš portato in Italia da Miraggi edizioni con la traduzione di Yvonne Raymann è un’opera di narrativa che incuriosisce il lettore catturandolo fin dalle prime pagine.
Ma iniziamo dal principio.
Siamo in Repubblica Ceca, Fleischman è un giovane uomo sui trent’anni, con qualche difficoltà e un passato tragico alle spalle, lavora come tuttofare al Grand Hotel di Ještěd, ha una passione smodata per la meteorologia che utilizza soprattutto come termine di paragone con la vita stessa. Vita che procede monotona fino a quando non conoscerà due persone che in modi differenti influiranno su molte delle sue decisioni.
Come già detto in precedenza, Grand Hotel di Jaroslav Rudiš è un romanzo unico nel suo genere, raccontato in prima persona dallo stesso protagonista, con molteplici similitudini tra la meteorologia e la vita stessa, un’opera che favorisce l’introspezione di chi legge, anche grazie a uno stile onirico quasi ipnotico, capace di suscitare una forte empatia.
I personaggi sono molti e tutti ben delineati, anche se si legge di loro tramite l’occhio del protagonista.
Il mio preferito é come sempre un secondario: Ilja, la ragazza che irromperà nella vita Fleischman in modo del tutto inaspettato. Proprio questa irruzione aiuterà lo nella sua crescita personale.
Jaroslav Rudiš ci guida per mano in questa storia e ad ogni pagina ci sospinge ad un’autocritica spronandoci però a gioire delle piccole cose della vita senza mai perdere la speranza verso il futuro.
Chiede il lettore di fare i conti con le proprie paure e trovare uno slancio, un appiglio per fronteggiare l’ignoto, il tutto senza mai perdere il ritmo della narrazione né facendo scemare la tensione narrativa.
Le varie metafore con base meteorologica non appesantiscono né la narrazione né lo stile narrativo anzi hanno la capacità di rendere ancora più efficace l’impatto emotivo della storia sul lettore. In conclusione, mi sento di affermare che Grand Hotel di Jaroslav Rudiš è un romanzo brillante e potente al contempo che può essere un’ottima guida in questi tempi d’incertezza.
Grand Hotel di Jaroslav Rudiš, Miraggi Edizioni pp.224, Brossura 18 €, versione digitale disponibile.
Ringrazio la casa editrice per la copia cartacea del romanzo.
Casa editrice scoperta Grazie alla libreria Gogol & Company di Via Savona 101 Milano
Pellicani babbo e figlio per un torrente di parole
I Pellicani, con la p maiuscola, perché è un cognome, non sono gli animali esotici dal grande becco che nell’arte cristiana sono diventati simbolo di Gesù e dell’amore verso i figli: così si intitola il romanzo di Sergio La Chiusa edito da Miraggi.
Un torrente di parole, in un claustrofobico condomino surreale, con situazioni e relazioni ambigue, prima su tutte quella padre-figlio dei due protagonisti, che non molla più il lettore e lo spinge nella corsa lungo le pagine e la tragicommedia di questo strambo eroe.
Pellicani figlio si fa scudo di una valigetta, di un ruolo, Pellicani babbo incombe con i suoi acciacchi da vecchio assistito da una badante che il figlio a metà libro riesce a buttare fuori di casa e dalla loro vita – “Ci siamo emancipati”, annuncia il protagonista sull’onda dell’entusiasmo prima di rinchiudersi nella sua cameretta a sgranocchiare biscotti Plasmon – dopo venti anni in cui era stato assente per impegni non meglio precisati.
E’ un’opera inconsueta quella di La Chiusa, finalista al premio Italo Calvino 2019, in cui ha ottenuto la “menzioni speciale Treccani” per la lingua italiana.
Il giovane Pellicani è così antipatico da risultare simpatico, come accade in molti film. E’ ipocondriaco, goloso, si “traveste”, spacca il capello in quattro ad ogni occasione dato che dubita di tutto, sfugge alle responsabilità, ma in fondo va dritto alla meta e si installa in casa del vecchio e infermo Pellicani babbo.
Se la lettura per voi è anche sfida, immergersi nelle pagine, questo è un romanzo da affrontare. E la sua vena poetica non deluderà.
Nuova #nonrecensione, in forma di bugiardino, per nuovo sorprendente libro in uscita. “I PELLICANI”, Sergio la Chiusa (Miraggi Edizioni 2020)
CONTENUTO Un uomo cammina tantissimo, frenetico e rocambolesco, fra memorie, deliri psicotici, e proiezioni fantasmagoriche, inciampando nelle macerie di un appartamento e di un’esistenza, anzi due.
AVVERTENZE Leggerlo equivale a salire su una bicicletta, lanciata a folle velocità su un percorso sconosciuto. Le prime pedalate lasciano senza fiato, ma in un attimo si prende il ritmo e ci si immerge nel piacere delle folate di aria in faccia. Il paesaggio è nitido, grazie a un uso della lingua magistrale e ipnotico. Il divertimento assoluto, così come l’intuizione di una realtà verosimile, al di là di ogni apparenza.
INDICAZIONI Per chi ha bisogno di muoversi, sperimentare, abbandonarsi e riprendere il controllo, con la certezza della sua inutilità.
POSOLOGIA: Da leggere tutto in un fiato, e lasciare agire con stupore.
ESTRATTO: “… era chiaro che non potevo sistemarmi da nessuna parte, sistemarsi era sommamente pericoloso, si correva il rischio di trovarsi ad accudire qualcuno, oppure, se non c’era nessuno da accudire nei dintorni, coricarsi, cadere nella trappola del letto e assumere senza pensarci la posizione dell’accidioso, entrare nel suo comodo stampo, che era poi come stendersi in una cassa da morto perché l’accidia, l’inoperosità, l’indolenza erano tutti strumenti di resistenza, d’accordo, ma se non si governavano a dovere alla lunga si tramutavano in attività letali… Circolare! Circolare! Questo era importante!”
Aognuno di noi può capitare di parlare con un oggetto, una pianta o un animale. Giovanni Spartivento, dopo aver perduto in pochi giorni lavoro e fidanzata, liquida lo psichiatra dal quale era in cura e, rimasto solo con la sua ossessione per le donne e la consolazione della marijuana, adotta come confidente un omino della Lego: «Un piccolo aggiustatutto con la tuta e il cappello blu; una via di mezzo tra un idraulico e un operaio, dall’espressione seria ma bonaria». Insieme, intraprendono un viaggio che da Torino li porterà prima ad Amsterdam e poi, in seguito alla notizia dell’omicidio di un’ex compagna di scuola, a Bisenti, paese natale di Giovanni. Bisenti è però anche il paese di origine di Ponzio Pilato… e non sempre le questioni si risolvono lavandosene le mani.
La stanza è vuota, nessuna traccia di vita in quei ventotto metri quadri che ti sembrano una scatola. Ti senti carne avariata in una confezione di plastica: l’atmosfera protettiva ha finito il suo effetto e ti manca l’aria; cominci a marcire e ne senti la puzza ovunque. Sei seduto a terra, nudo, davanti a uno specchio spietato che riflette un’immagine che non riconosci. Siete due statue identiche che stanno per prendersi a cazzotti dopo anni di guerra fredda. Quelle parole ti hanno toccato nel profondo e hai deciso che devi dare una svolta alla tua vita. Serve un taglio netto a tutto senza nessuna pietà, nessuna speranza e nessuna alternativa. Siete solo tu, la lampadina appesa a un cavo che penzola dal soffitto, la bottiglia di un whisky a basso costo e lo specchio. Quel maledetto vetro a cui vorresti dare un pugno e romperlo. Ma hai paura, è questa la verità, nuda come te. Pensi che sarà doloroso, ma fa male anche guardarci dentro e fissare la tua immagine come se aspettassi che sia lei a parlare per prima. Sai bene che non ti darà nessuna risposta e l’unica consolazione è che non farà domande.
Jan Antonín Bata è sdraiato in un letto d’ospedale. Fa caldo, gli fa male il petto. Ha avuto un infarto. Un altro. Il bianco delle lenzuola di lino inamidato si confonde e si trasmuta nel bianco della neve d’infanzia: sente in lontananza il suono del violino, del suo primo violino. Usa la custodia nera a mo’ di slitta per scivolare dalla discesa e arriva per primo mentre gli altri bambini giocano lanciandosi la neve. Lìda accende il ventilatore per trovare un po’ di sollievo dall’afa tropicale brasiliana. Il motore del ventilatore è rumoroso, cupo e monotono come il motore dell’aereo Lockheed Electra L-10 con cui Jan Antonín Bara ha girato il mondo. È mattino e Lìda e Maja aprono le finestre dalle quali s’inerpica e s’introduce l’inebriante profumo della dama da noite. La prima volta che aveva avuto un infarto c’era solo Marina, nessun dottore – “non ci sono dottori nella giungla” – e la donna, per calmarlo, gli aveva sussurrato di inspirarne il profumo. Anche ora inala profondamente la fragranza floreale e così facendo vola via dalla stanza d’ospedale di San Paolo, attraversa l’oceano e inspira a pieni polmoni, quasi bevendolo, l’odore umido della terra e della neve primaverile. È giusto tornare perché è giunto il momento di ripulire per bene la sua memoria e il suo onore infangati da maldicenze, incomprensioni e finanche da un processo- farsa. Sì, perché lui, Jan Antonìn Bata, fratello unilaterale di Tomàš Bata (originario fondatore di quello che diverrà l’impero calzaturiero Bata S.p.A.) per anni non è stato riconosciuto in patria, in Europa e negli Usa per quello che era né per i suoi meriti. Tutt’altro: “Sono già stato un po’ tutto sulla bocca e sul volgare muso della gente: nazista, ebreo, ebreo tedesco, ebreo ceco, ebreo comune, slavo schifoso, agente del terzo Reich, disertore, traditore della patria, sabotatore della nazione, gigante, agnello sacrificale dei comunisti, re dei calzolai, continuatore, Capo e ora pare che sia stato anche un punto nevralgico della storia ceca contemporanea.” Ora che è morto d’infarto, l’uomo vuole ricomporre i tasselli del puzzle, capire perché non gli hanno dato ascolto e rivedere il tutto “attraverso la lente di ingrandimento del tempo”…
Con Bata nella giungla è la ricostruzione romanzata della vita imprenditoriale e famigliare dei Bata che assume i toni della storia corale di grande respiro. Il romanzo si sviluppa e si organizza in maniera singolare: immaginatevi la classica rappresentazione di un albero genealogico, con le radici, il tronco e le fronde a simboleggiare la stirpe, la discendenza, la progenie; ad ogni modo, l’autrice non tratteggia l’albero in maniera lineare, bensì a scatti, soffermandosi su un personaggio per poi passare ad un altro, senza tenere conto della linea biologica. Difatti, a dare il titolo ad ogni capitolo del libro è il nome di uno dei membri della famiglia, i quali si alternano e ritornano più volte a fornire la loro visione della storia. La narrazione procede dunque andando avanti e indietro nel tempo, nei legami familiari, nelle vicende biografiche e storiche, nei ricordi dei membri della famiglia Bata e nelle loro riflessioni personali. Il lettore è così sbalzato, come da una folata di vento, da un determinato momento storico e da un preciso punto geografico all’altro. In questo romanzo, i piani del presente e del passato si sovrappongono, così come quelli della vita terrena e ultraterrena – sono davvero notevoli e suggestivi i momenti in cui Markéta Pilátová scrive di Jan Antonín Bata mentre vaga erratico su questa Terra e riflette sulle cose della vita dal suo peculiare punto di vista. Si alternano poi gli scenari urbani della Vecchia Europa con le descrizioni del lussureggiante e selvaggio Sudamerica che la caparbietà e la determinazione dei fratelli unilaterali Bata sono riusciti in parte a domare. Questi “Ford cechi” dell’industria calzaturiera con il loro impero hanno rappresentato lo spirito imprenditoriale impregnato di fiducia nel futuro, nel progresso tecnologico e di fiducia nell’uomo e nella socialità. Particolarmente interessanti e profonde le riflessioni dei personaggi sulla lingua madre e sulle lingue acquisite (quasi tutti, in questo libro, sono poliglotti e parlano correttamente il ceco, il serbo, il tedesco, l’inglese, il portoghese e talvolta il francese). Il soffermarsi sulla lingua, sull’importanza della lingua come fulcro attorno al quale si plasma l’identità spirituale di ciascuno di noi così come passpartout per una vita sociale, lavorativa e intellettuale più ricca rivela l’attività di traduttrice della Pilátová, la quale, oltre a scrivere insegna il ceco in Brasile proprio ai discendenti degli emigrati cecoslovacchi delle città fondate dai Bata attorno alle loro fabbriche.
Scritto da Roger Salloch nel 2019 e pubblicato dalla Miraggi Edizioni, nella collana tamizdat, nel 2020,Vanilla Ice Dreamè un romanzo distopico sull’America di un ipotetico 2021.
Uno scenario abbastanza immaginario eppure contrassegnato, al suo interno, da dettagli che fanno presagire le discontinuità di un presente portate allo stremo.
Protagonista della vicenda è Carter Hollmann, uno scrittore di viaggio che rientra in America dopo anni all’estero.
“Non era trascorso nemmeno un mese dal suo rientro a casa e Carter aveva già la sensazione che l’attuale regime avesse trasformato l’America in un guscio…”, un guscio che aveva le sembianze di una terra “antica e sconosciuta” in cui notava di perdere le parole fino a non riconoscersi quasi più.
Il Paese che ritrova, infatti, pare essere stato trasformato dalla presidenza di un uomo bianco “con una messa in piega arancione”; in cui il razzismo, che conosceva anche indirettamente essendo stato sposato con Meredith, una donna di colore, è diventato qualcosa di accuratamente organizzato.
Ciò che sconvolge Carter è la cupa e profonda indifferenza nella quale il Paese è precipitato; un’indifferenza che all’inizio del romanzo notiamo tutta nel racconto della morte di un ragazzo nero investito da un furgone dopo, forse, essere stato sorpreso a rubare in un negozio e cacciato via dal titolare. Un avvenimento tragico che, tuttavia, pare non coinvolgere e sconvolgere nessuno.
“L’autista del furgoncino suonò il clacson. Il suono era quello di un basso cupo in una scala musicale. Ma la sua voce era stanca. Già successo, già fatto, già investito ragazzini neri, le anime oppresse hanno a malapena un corpo all’inizio.”
È proprio la visione di questa scena a inaugurare l’intera vicenda: un’azione quotidiana ma, al contempo, l’esemplificazione, tragica, di una condizione umana ben più ampia.
Le rivolte razziali e la connivenza nei confronti di azioni come questa minano e marcano, altresì, il contesto sociologico col quale Carter Hollmann si confronta.
Spinto da due amici, Rachel e Bob, piuttosto indifferenti ai problemi sociali, Carter inizia a lavorare in una scuola di scrittura dove tra gli allievi conosce e stringe amicizia con Julio Orijniak.
Portoricano per metà di nascita e con alle spalle un’infanzia burrascosa, caratterizzata da quello che egli chiama mal de ojo, Julio si guadagna da vivere lavorando per una compagnia di traslochi impegnata ad aiutare le famiglie nere a trasferirsi in insediamenti protetti.
Tutto questo fa anche parte di un progetto sviluppato da Mandy Lemmour, datore di lavoro di Julio, un vecchio uomo benestante costretto a letto.
I fotografi lavorano con Julio scattando immagini di questi insediamenti protetti destinati agli uomini di colore per fornire materiale visivo a un videogioco. Tra di loro c’è anche Meredith, l’ex moglie di Carter, dalla quale lo stesso divorziò dopo un violento litigio che causò all’uomo l’allontanamento dalla figlia.
Il videogioco, basato su quello che viene chiamato l’incidente del Lago Michigan, mette in luce il lato oscuro del Sogno Americano dove capitalismo e razzismo congiurano a un inquietante esperimento di ingegneria sociale. Una nuova dimensione si aggiunge quando alcuni personaggi governativi vengono coinvolti, usando il gioco per iniziare un registro nazionale di famiglie nere.
Domande, riflessioni, visioni, si concatenano così nella mente di Carter, descritto come “il miglior commentatore della realtà in circolazione” che, pertanto, dovrà fare i conti con ciò che vive e con l’amore: da un lato quello naufragato per Meredith, dall’altro quello per Catherine che conosce da sempre.
Un racconto che alterna immagini presenti e passate e che rivive scostante, discontinuo nella descrizione delle stesse, proprio come fossero tutte fotografie, protesi cognitive di quanto giornalmente vediamo o vogliamo vedere.
In tal senso, viene quasi naturale un parallelo tra il personaggio di Carter Hollmann e quello di Thomas, protagonista del film di Michelangelo Antonioni Blow Up.
All’inquietudine di Thomas, caratterizzato dal regista padre del concetto di alienazione sul grande schermo come l’emblema di un personaggio che non si accontenta di riprendere cose straordinarie ma vuole indagare la realtà quotidiana spiandola quasi come da un buco della serratura per poterne così cogliere l’intimità più nascosta, fa da contrappunto il personaggio di Carter, anch’egli assetato di verità. Una verità che cela tutta nella scrittura, vista come lo strumento utile per “portare alla luce l’essenza di ciò che contava” davvero.
Uomini attivi eppur spesso distratti, disfunzionali nelle proprie emozioni e, al contempo, frenetici.
Nel Carter di Roger Salloch si evince tutta l’incapacità di rassegnarsi a un silenzio passivo e compromesso e di rimando, la volontà di osservare, raccontare il tutto da un altro, e nuovo, punto di vista per poter finalmente scoprire cosa “realmente sta succedendo qui”.
Emblematico il tal senso lo scambio di battute con Catherine:
“Catherine strinse la mano di Carter. Pensi che potrei arrivarci? Le chiese. Dove? A essere di nuovo me stesso. Come il cuore di questo Paese. Come la canzone. Nonostante il Presidente. Il nostro mal de ojo. È possibile?”
Con uno stile controllato, asciutto, incisivo e una sintassi paratattica e fulminante quasi come scatti fotografici ripetuti, Vanilla Ice Dream, vuole porre le basi per un atto deliberato di resistenza, necessario a superare le pulsioni razziste di un Paese descritto in tutte le sue ombre e chiaroscuri, quasi a esorcizzare anche quella paura che attanaglia oggi la maggior parte delle persone.
Una paura incontrollata e che assume il volto di ciò che è diverso e ignoto: di un colore, di un credo religioso diverso, di diversi modi di descrivere lo stesso mondo.
A ricorrere più volte nel romanzo è il riferimento al capitolo quarantadue di Moby Dick, assegnato da Carter ai suoi studenti e assunto come spunto di riflessione da adottare nel quotidiano. In queste pagine Melville fa riferimento alla bianchezza della balena simbolo di tutto quello che può considerarsi oscuro e maligno.
“Guardavano alle cose come se fossero state scolpite nella pietra. Voleva che sapessero che c’è sempre un altro modo di percepirle, magati da una prospettiva completamente opposta. Le offese che si possono rivolgere a un uomo nero che si odia sono le stesse per un uomo bianco. Non c’è differenza tra negro bastardo e bastardo muso pallido. In pratica, voleva parlare loro dalla prospettiva opposta, opposta a quella da cui parlavano all’autorità del momento.”
Pienamente inserito nelle recenti rivolte razziali in America, Vanilla Ice Dream, nel suo intento profondo, sembra porsi parallelamente ai cori e agli striscioni del movimento Black Lives Matter, introducendo vicende che, seppur immaginare, sanno cogliere la più intima e spiazzante attualità.
Spiccata è la capacità analitica di un artista poliedrico come Salloch: narratore, sceneggiatore, fotografo e commediografo statunitense che vive e lavora a Parigi, autore già di Una storia tedesca (Miraggi, tamizdat, 2016) capace di fotografare e concatenare con maestria e rigore avvenimenti per creare storie che raccontano contrasti, implosioni, rimandi che parlano al presente ma anche alle nostre speranze e alle nostre più taciute fragilità.
Un romanzo importante e necessario.
Perché è arrivato il momento di non avere più paura.
Di fronte al libretto Pagina bianca (Miraggi Edizioni, 2020) di Gianluca Garrapa si possono avere sentimenti contrastanti, un lettore esigente come me troverebbe indigeribile una simile sperimentazione (non solo linguistica, ma soprattutto formale), eppure il compito del recensore – ripete sempre un mio amico – è trovare quel poco di buono ovunque, in ogni opera. Questa è stata la mia motivazione. Mi limiterò dunque a quelle cose che ho trovato realmente affascinanti, e pure a interpretare un poco la sperimentazione attuata in queste pagine.
Già dal titolo possiamo arrivare a intendere l’intento principale di Garrapa: disseminare la parola per il foglio, facendo sorgere (risorgere?) il bianco dello stesso. Già la poesia di per sé lavora molto sullo spazio non inchiostrato, altresì qui l’autore smembra la poesia sparpagliandone i pezzi. L’effetto parrebbe quasi brutale, e vorrebbe pure avere un intento evocativo: quasi come se la parola – in sé, nuda e cruda – dovesse racchiudere l’infinitezza raccomandata; l’autore – come chiunque sappia scrivere – deve conoscere la portata ontologica del linguaggio, ma un lettore diseducato a questa ricettività altresì trovandosi di fronte a un tale laboratorio si sentirà ben estraneo. In questo dismembramento v’è qualcosa di interessante che non riesco a cogliere appieno, ha però catturato la mia attenzione quella breve sezione intitolata “paese” dove si traccia (proprio in questi termini) una breve storia di quanto fu la nostra penisola nei tempi che ci precedono.
Aggiungo in più che al fine di ogni percorso – che Garrapa compone a mo’ di novello Pollicino – ho avuto come l’impressione che il tutto dovesse suscitarmi una certa ilarità, soprattutto nelle svariate parole richiamanti i pasti quotidiani. Ciò fu parecchio piacevole, invero: quasi come le canzonature di un vecchio amico.
La parte che più si avvicina alla poesia, però, non ha a che fare con alcun tentativo di versificazione presente in questo testo, anzi sta ben piantato in quelle prosette (per lo più diaristiche) che partono giocose per concludersi tragiche. In queste, racchiuse per lo più nella sezione “Egli”, noto un buon ritmo in ogni micro-narrazione, e pure un espediente interessante: in fondo tali prose vorrebbero essere poesia (non che non vi sia la poesia in prosa, qui per poesia sto intendendo un’opera in versi), ebbene, il punto posto a ogni conclusione di frase prende – in Garrapa – il posto dello slash (che notoriamente occorre per posizionare sul rigo continuativo una poesia in versi). Aggiungo che tale sezione – “Egli” – è realmente uno scrigno di fantasia linguistica apparentemente nonsense, proprio per ciò gustosa e vasta.
Direi in conclusione che Pagina bianca sia un testo da leggere lasciando da parte qualunque intendimento vero di poesia, per aprirsi (e possibilmente beneficiare, dell’ironia per lo più) a questo tentativo ben studiato di stupire, che parte proprio dalla messa in dubbio della poesia stessa.
Liberec, Repubblica Ceca. Fleischman vive e lavora dentro al futuristico Grand Hotel, costruito proprio sulla cima del monte Ještěd. Ci è entrato da ragazzino grazie al cugino Jégr, che lo ha trasformato in una specie di facchino tuttofare. Ora ha trent’anni e da quell’albergo ci esce poco. Ha un passe-partout che usa per entrare nelle camere degli altri e così conoscere le loro vite. A volte spia dal buco della serratura ciò che fa Jégr con le sue donne, buscandosi ogni tanto qualche scappellotto. Ma soprattutto Fleischman è appassionato di meteorologia, convinto che il tempo atmosferico sia la sola cosa che conti al giorno d’oggi nel mondo, perché capace di influenzare qualsiasi evento e situazione, persino la psiche umana, così come dice la sua dottoressa. Conosce ogni genere di nuvola, le loro trasformazioni, ciò che anticipano. Non è mai riuscito a lasciare la città di Liberec, da quando suo padre e sua madre sono morti in un incidente stradale, ma forse non è andata proprio così, e lui è finito al Grand Hotel. Ci ha provato più volte, salendo sopra un camion di passaggio, in taxi, ma non è mai arrivato oltre il cartello che indica la fine della città anche se, prima o poi, ce la farà. Ora ha anche una missione da compiere: aiutare il vecchio Franz, che zoppica e ha fatto la guerra, a riportare a casa i suoi amici, o quello che rimane di loro perché, come dice sempre Franz: uno deve finire lì dove è nato. Per questo, chiuse in alcuni barattoli, porta con sé le ceneri dei suoi compari che spargerà con l’aiuto di Fleischman dove ciascuno di essi è nato e cresciuto…
La morte è come il vento, pensa Fleischman. Perché il vento, meteorologicamente parlando, sta al principio e alla fine di ogni cambiamento del tempo; sposta le nuvole, come vite umane, da una parte all’altra del mondo. Così è la morte, se ci pensiamo bene, anche se il ragazzotto strano, mezzo matto e disadattato, è forse la persona meno indicata per raccontare un fatto di cronaca. Difficile credere alla sua attendibilità, che pare fragile come la fragilità delle nuvole, che non sono che polvere raccolta dall’umidità. Persino la scomparsa dei suoi genitori potrebbe non essere andata così come la racconta alla sua dottoressa. Ma prima o poi ci arriverà a dirla tutta, a descrivere la realtà e spiegare molte cose di sé. Il problema è a chi. Il bestiario di gente che lo circonda non è certo promettente. A Ciuffo, che sostiene di essere stato in America e vorrebbe ritornarci? Alla dottoressa, che però ama la storia dell’incidente stradale? O forse alla bella Ilja? Jaroslav Rudiš ci propone una storia bizzarra, piena di ombre e poche luci, proprio come un cielo nuvoloso tormentato dal vento, dove gli sprazzi di sereno vengono soffocati dal grigio della pioggia. Ma il giovane Fleischman è un personaggio carico di poesia malinconica, che per evitare di affogare nella melma della vita si aggrappa alla meteorologia, la sua sola arma contro gli uomini che lo sottovalutano e non lo apprezzano. Grand Hotel è anche una storia di confine, quello della frontiera ceco-tedesca, e di confinati in un luogo fuori dal tempo, aggrappato alla cima del monte Ještěd come un nido d’aquile. I brevi capitoli ci lasciano il tempo di riflettere sulla condizione di Fleischman che non aspetta altro che il vento buono che lo porti via da lì, questa volta per davvero.
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