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#3 Racconto inedito di Bianca Bellová

#3 Racconto inedito di Bianca Bellová

Marta è di malumore

(Trad. dal ceco di Laura Angeloni, letto e interpretato da Elisa Galvagno)

Marta è di malumore. Dice che non ha più intenzione di aiutarmi con queste stupidaggini, che ha un sacco di lavoro da fare in giardino ed è nervosa soprattutto per questo. Deve rincalzare le patate, a meno che non ci sia qualcuno che lo faccia al posto suo. A guardarsi intorno, le sembra di non vedere anima viva. Che ha già abbastanza problemi con la siccità. Se continua così le patate saranno piccole come perline, per non parlare dell’aglio e della cipolla. Il pozzo è allo stremo, ormai più di un rivolino d’acqua non ne tiri fuori. E io che non faccio che romperle le scatole per quelle stronzate che comunque non guarda nessuno. Che farò quando fra un mese non ci sarà più niente da mettere sotto i denti, mi sazierò con i miei filmatini?

Eppure all’inizio le piaceva così tanto. Anche lei cova dentro di sé bisogni creativi mai espressi. Tutte le sue figurine all’uncinetto che produce la sera da anni; con l’uncinetto ha fatto vari personaggi del presepe, tutte le statue del ponte Carlo e l’ultimo governo ceco per intero, compresi i ministri destituiti e i loro sostituti. Ha fatto Quentin Tarantino e Mao Tze Tung, Lída Baarová con Goebbels. E le sue figurine le abbiamo utilizzate per diversi videotutorial di sopravvivenza.

Leggi e ascolta insieme

Quando hanno chiuso i negozi ne abbiamo girato uno con Jirka Bartoška, detto Barťák, che mostrava come costruirsi un arco con le frecce. Marta stava davanti al microfono e cercando di imitare la voce vellutatamente impostata di Barťák e la sua dizione sgraziata diceva: “Per determinare la giusta ampiezza dell’arco appoggiate la mano destra sul fianco destro e allungate il braccio sinistro il più possibile. La distanza tra i due punti corrisponde all’ampiezza esatta”.

Abbiamo dovuto girarlo a varie riprese, perché a Marta veniva sempre da ridere. Non ero infastidito, mi piace quando ride, intanto io preparavo l’animazione col nostro Barťák di cotone, che allargava le braccia e si scontrava sempre col suo naso aquilino e Marta rideva a crepapelle. Fretta non ce n’era, nessuno dei due lavorava più e le pecore badavano a se stesse. Pur se non ne avessimo ricavato niente, ne sarebbe valsa la pena anche solo per vedere Marta ridere così. Ha una risata gutturale, come una vacca che partorisce, sembra che la tiri fuori dalle profondità della terra.

Il primo video si è propagato come il fuoco, d’un tratto centinaia di fan non chiedevano altro che vederne di nuovi. Nel successivo abbiamo inscenato una partita di calcio a distanza, ventidue figurine che giocavano un incontro decisivo, ognuno nel suo soggiorno. Di calciatori avevo però solo Panenka e Maradona, quindi ho dovuto completare la formazione con San Venceslao, Goebbels e altri. Marta non era ispirata, quindi la radiocronaca ho dovuto farla da solo. E alcuni commenti mi hanno fatto nero: “Ma che radiocronaca è, bestia, l’hai mai vista una partita vera?”, e io e Marta ci siamo fatti una bella risata.

Poi abbiamo girato un video sulla caccia alle rane. Paris Hilton agitava una torcia nel buio e in tono molto affettato diceva che le rane, di notte, ovvero quando sono più attive, le individui, non immagineresti mai! Grazie al loro gracidio! Devi avvicinarti, abbagliarle con una fonte di luce e tramortirle con una mazza da baseball! Le rane sono commestibili, ma alcune nascondono sotto pelle un veleno – quindi prima della consumazione dovete scuoiarle! Le coscette di rana sono una délicatesse assoluta, hanno lo stesso gusto del pollo, ma che dico del pollo? Sono molto meglio! L’ultima scena era una ripresa dettagliata della nostra Paris Hilton a uncinetto mentre, con il suo mostruoso chihuahua attaccato a una mano e la chiavettadella rana a molla nell’altra, fa schioccare rumorosamente la lingua. 

Quella volta ci hanno dato parecchio addosso tirando in ballo il maltrattamento degli animali, si è espressa a riguardo persino un’associazione per la protezione animali. Con un certo disgusto hanno condiviso il video anche i vegani, quindi di colpo di sono aggiunti diecimila spettatori da tutto il mondo. Hanno scritto su di noi un paio di articoli su riviste nazionali ed estere. Persino al notiziario in televisione hanno parlato di noi, in chiusura, tra le curiosità.

John Travolta ha illustrato come farsi venire dei bei boccoli col phon in assenza di parrucchiere. In un video sul taglio di capelli casalingo hanno recitato anche le nostre pecore. Il nostro Přemek Podlaha all’uncinetto ha presentato un tutorial su come estirparsi un dente. “Il sapone è un disinfettante fenomenale!” ha commentato con la sua voce saggia. “Come le mani, anche la ferita bisogna lavarla con l’acqua bollita. Se impossibilitati a procurarvela, usate l’urina! È un liquido sterile e la ferita non si infetterà!”

Ogni giorno un video lungo dai due ai tre minuti, a girarli ci divertivamo un sacco e col passare del tempo siamo migliorati molto, ormai riuscivamo a capire la via più diretta per arrivare subito allo scopo, tecnicamente e concettualmente. Ricevevamo molti messaggi incoraggianti e anche ringraziamenti, perché con i nostri tutorial la pesantezza della quarantena era più sopportabile. 

“Fuori è buio, si sentono solo le sirene delle ambulanze e lo scroscio dei vetri delle vetrine spaccate dai poveri che, ormai privi di tutto, saccheggiano i negozi”, ha scritto per esempio un fan di Brno. “E io me ne sto qui seduto a guardare un video dopo l’altro e so che andrà tutto bene. Vi ringrazio con tutto il cuore, è grazie a voi se non sprofondo nell’angoscia”.

“Cazzo, fratello, grazie!”

“Non ho mai visto niente di più stupido. Mi congratulo per aver abbassato l’asticella dell’intrattenimento al suo minimo storico!”

“Potreste scrivermi per piacere che spezie usate per le coscette di rana?”

Avevamo seguaci nelle Filippine e persino nell’isola di Pasqua. Era inebriante.

Poi è iniziata la discesa. Ogni giorno i like si dimezzavano. In tutto il mondo hanno cominciato a verificarsi guasti alla rete elettrica. Circa un mese dopo, la città che vediamo dalla nostra collina è avvolta nel buio, non viene più illuminata. Grazie ai pannelli solari sul tetto noi possiamo ancora accendere la luce, se splende almeno un po’ il sole. E anche riscaldare l’acqua. La legna ci basterà per qualche inverno e ho avvolto il recinto col filo spinato e munito la casa di balestre che si attivano grazie a un pedale.

In caso la situazione dovesse volgere al peggio, in cantina abbiamo un generatore di corrente diesel. Solo con l’acqua nel pozzo siamo messi male. E Marta mi dimagrisce a vista d’occhio, nemmeno girare i video la diverte più.

“Marta, c’è rimasto del pollo nel congelatore?”

“Sì,” sospira lei, “quello dell’azienda di Andrej Babiš,l’avevi comprato per sbaglio e mi ero rifiutata di cucinarlo. È l’ultimo che abbiamo”.

“Allora tiralo fuori, Marta mia. Facciamo un video tutorial su come arrostire un pollo in una scatola per munizioni”.

“Ma piantala!”

“Non dobbiamo arrenderci”.

Scuote la testa e lascia cadere le braccia. “Ti voglio tanto bene” dice, “e mi piace quello che fai. Ma ti pare che qualcuno possa ancora guardarli, questi stupidi video? La gente ha altri problemi. E anche se volessero non potrebbero, perché la corrente non ce l’ha quasi più nessuno”.

Prende la cagna e va a fare una passeggiata nel bosco. Ora non la richiama più quando si lancia all’inseguimento di una lepre o di un cervo. Ancora non ha preso niente, non è più una giovincella, ma magari un giorno ce la farà.

Guardo i grafici di visite del sito e vedo che da ieri abbiamo avuto in tutto sei spettatori. Mi alzo e vado a dar da mangiare all’ultimo coniglio.

“In agrodolce o alla panna?” gli chiedo scherzoso, grattandogli il mento. Il coniglio soffia, non ha mai gradito le mie battute.

Tornando dal bosco Marta mi porta il pollo senza dire una parola. È già scongelato, deve averlo tirato fuori già prima di uscire. Mi porta anche i protagonisti del video – gli animali all’uncinetto, la giraffa, lo scoiattolo, il cagnolino. Mi osserva in silenzio mentre muovo gli animali, lascio cadere il cane nella scatolina di latta che lo scoiattolo ha precedentemente ripulito con la coda dai rimasugli di polvere da sparo, li faccio accendere il fuoco, le cui fiamme sono fatte di fogli di celluloide, il pollo nella scatolina di latta non c’entra, gli animali non riescono a chiudere lo sportellino. Marta sospira ed esce in giardino a rincalzare le patate. Una settimana fa, mentre facevamo l’amore, le ho schiacciato gli occhiali, quindi non può più leggere libri e nemmeno risolvere i cruciverba. Ma lei non ha detto nemmeno una parola, in questa settimana non ne ha mai fatto cenno.

Il segnale è instabile, quindi ci metto incredibilmente tanto a girare il video. Marta torna e guarda lo schermo da sopra la mia spalla finché non appare la scritta: “Il suo video è ora pronto per essere riprodotto”.

Guarda gli animali all’uncinetto che preparano il pollo di Babišarrostito nella scatolina da munizioni secondo il manuale del reggimento di forze speciali SAS, e all’improvviso dentro di lei comincia a gorgogliare una risata dal profondo. Ahah ahahah ahah uhahaha… ride tanto che la cagna alza la testa e ci guarda con aria confusa.

“Non è possibile” ride con le lacrime agli occhi. “Sei proprio scemo!”

La cagna per sicurezza lancia un abbaio.

Poi sotto il video compare un like titubante. Marta si fa seria eannuisce col capo.

All’improvviso lo schermo del computer si spegne, così come le spie di tutti gli elettrodomestici. Il frigorifero ha un sussulto.

“Continua” dice Marta. “Vado ad avviare il generatore”.

Marta mi sorride incoraggiante. Sappiamo entrambi da tempo che non smetteremo mai. 

Bianca Bellová, Praha, 01.5.2020

#2 Racconto inedito di Bianca Bellová

#2 Racconto inedito di Bianca Bellová

I velieri

(Trad. dal ceco di Laura Angeloni, letto e interpretato da Elisa Galvagno)

Oggi non è venuta.

La cerco con lo sguardo dal terrazzo e vedo che l’acqua si è alzata un altro po’, inondando, sulla piazza, tutta la fioriera con le palme, che nessuno si è preso la briga di portar via. Un attimo fa sono cessati gli ultimi echi del ballo notturno e anche lo scampanio dalla cattedrale che chiamava alla messa, ora è scesa la quiete. Si sente solo lo sciaguattare dell’acqua e il crepitio delle travi portanti.

Sulla strada nuotano i topi d’acqua, insieme a un cesto pieno di stoviglie di stagno. Sul lato ovest della città hanno cominciato a demolire le case, di notte ho sentito i loro lamenti, gemevano come le vergini quando il principe reclama su di loro il diritto della prima notte.

Una barca a remi che attraversa la piazza trasporta dei musicisti, di ritorno da una festa notturna. Si appoggiano mezzi addormentati ai loro strumenti, troppo stanchi per rispondere al mio saluto. I musicisti che non hanno ancora lasciato la città sono richiestissimi. Arrivano nei palazzi e i signori gli concedono di portarsi via quel che vogliono. Ma gioielli, gobelin e vetri di Venezia hanno perso valore, ce ne sono fin troppi in giro. Vanno per la maggiore quel genere di scambi che sanno di carne e sangue: in cambio del servizio richiesto offrono una notte con la figlia minore, un biglietto sul veliero del giorno successivo, un sacchetto di oppio, un decotto di belladonna e cicuta…

E lei non è venuta. Ogni giorno mi comunica sorridente che l’indomani partirà, che è la sua ultima possibilità, ma poi c’è sempre qualcosa che la trattiene: una zietta stroncata dalla febbre, la servitù che è fuggita e lei non ha idea di come preparare il bagaglio per il viaggio… E poi vedo di nuovo la sua gondola arrivare sulla piazza e il suo nastro d’oro intorno al collo, che lei mi permette di toglierle e poi di giocarci a lungo. Strofino quel raso d’oro tra le dita, lo annuso e la prego di lasciarmelo quando partirà.

“Non fare il sentimentale” ride lei e a volte mi sculaccia col suo ventaglio.

Ci amiamo senza parole, in silenzio, si sentono solo i gemiti delle fondamenta della casa. Sfiora le mie cicatrici e quando piango mi consola. A volte mi si addormenta tra le braccia, quando la notte prima ha folleggiato in qualche baccanale; allora ha dei cerchi scuri sotto gli occhi e l’umore malinconico.

“Se continua così, nel giro di una settimana avrai l’acqua in camera da letto” dice, e io scrollo le spalle. 

“Vieni con me” ripete per la millesima volta, ma ha un tono rassegnato. Sa che non cederò, che non voglio e non posso ricominciare altrove, in una città diversa di un’isola diversa …

Rimango in silenzio e lei si infuria, mi prende a pugni sul petto e grida: “Ma non la senti la puzza di marcio?!”

Poi stiamo in piedi sul terrazzo e guardiamo un altro veliero salpare all’orizzonte. Prima andavamo al porto ogni giorno per dare l’addio ai cittadini in partenza. Era più divertente che stare a osservare le torture e le esecuzioni capitali in piazza. Ho visto uomini sul ponte che al rintocco della campana della nave avevano il mento che gli tremava, allora distoglievano gli occhi e non li posavano mai più sulla riva. Ho visto genitori in procinto di spedire i loro figli lontano dalla città, ma, nell’attimo in cui la passerella del brigantino cominciava a sollevarsi, cambiavano idea e gridavano ai bambini di saltar giù. Le vecchie urlavano, si strappavano i capelli e si lanciavano sotto la prua, provocando un ritardo nella partenza e gli improperi dell’equipaggio.

Lei stava sempre in silenzio e salutava col suo foulard di seta. Adorava quel teatro: a ogni partenza la vedevo esercitarsi per la sua, si commuoveva in anticipo, deglutiva le lacrime e si riprometteva di essere forte. E quando cominciò a diventare evidente che il suo pubblico sarei stato io, ho smesso di andare. Ho smesso proprio di uscire di casa, in realtà. Ho spostato le mie scorte di vino dalla cantina alla biblioteca e per l’ultima volta mi sono deliziato dei miei volumi. Poiché nessun capitano mi avrebbe permesso di portarmi dietro i libri, le migliaia di tomi di cui mi prendo cura, in quell’esodo. Un’ordinanza del principe ha imposto per secoli che ogni nave che sostava nel porto fornisse tutti i libri che aveva a disposizione, e al pianterreno del mio palazzo i copisti li trascrivevano con perizia, a beneficio delle generazioni successive.

Nel giro di un paio di giorni tutti i volumi verranno inghiottiti dall’acqua putrida. E dunque io sto qui ad aspettare la rovina, con i miei libri in grembo; li coccolo, ci parlo, sfioro la loro pelle e accarezzo le pagine con una premura che non si discosta molto da quella che uso con la mia donna. E intanto guardo, in attesa di vedere la sua gondola.

La città si è spopolata molto, ma non è ancora del tutto deserta. Sono molti coloro che si rifiutano di lasciare i muri che si sgretolano e i letti su cui per anni si è impressa l’impronta dei loro corpi. Agghindati in modo sontuoso, come se dovessero ricevere il sacramento della Cresima, continuano a recarsi ogni domenica nella cattedrale in cui sono stati battezzati e sposati. Sulla piazza c’è il laboratorio orafo del vecchio Kohn, che ancora batte, cesella e lucida gioielli di inaudita bellezza, che ormai nessuno compra più. I dieci anni che ha trascorso curvo nel suo laboratorio mostrano ora i loro frutti. Come ogni artigiano esperto ora a Kohn basta prendere in mano un pezzo di metallo argentato per capire a un primo sguardo come dominarlo. Le sue anziane dita e la pelle rugosa si materializzano nei suoi gioielli, il vecchio e l’effimero diventano nuovi. Kohn adesso sforna una gran quantità di anelli, diademi, cavigliere e orecchini di incantevole meraviglia. Il suo laboratorio è sempre illuminato, il suo pavimento sempre spazzato alla perfezione. Intanto Rachel Kohn si asciuga gli occhi con il grembiule davanti ai fornelli.

Da tempo ormai nessuno compra più niente da lui – a parte me. Ordino da Kohn i gioielli per lei. È di certo una vanità. Lo sa anche lei – quando le allaccio la collana di smeraldi al collo sorride indulgente, come se si prestasse al gioco di un bambino. Un giorno si è sfilata gli orecchini di rubini e li ha lanciati dalla finestra.

“Questi sono solo gingilli!” ha gridato. “Regalami qualcosa di vero!”

So che vorrebbe che partissi con lei, e lei sa che non partirò.

Mi sono accorto che non è perfetta. Ogni tanto qualche filo di argento le scintilla tra i capelli. La cipria va a incastrarsi nelle impercettibili rughe intorno alla bocca. È lunatica. La pelle non è più elastica come il giorno in cui l’ho notata per la prima volta, quando incedeva sulla piazza col suo sorriso e un nastro bianco intorno al polso. Il suo declino è già iniziato, sebbene si manifesti ancora in modo lento e impercettibile. 

Ci sono giorni in cui riesco a farmene una ragione, comprendo che tutto passa, e che così dev’essere. È giusto che le giunzioni dei pozzi, levigate dai secoli, e la fontana ornamentale sulla piazza, e il palazzo principesco, la cattedrale e dopotutto anche la mia libreria, diventino dimora dei pesci predatori. Che tutto pian piano si decomponga e si trasformi in nutrimento per la nascita di qualcosa di più dignitoso.

Ma non oggi.

Avevo una casa piena di servitù e mi sono concesso ogni esperienza possibile, ma in verità nessuna di queste era davvero importante. Molto di ciò lo conservo ancora: la biblioteca più preziosa del mondo, gioielli di una bellezza indescrivibile e abbastanza vino e petrolio per la lampada che terrà la mia finestra illuminata fino alla fine. Il liuto che strimpello, anche se con l’umidità crescente diventa sempre più difficile da accordare.

Guardo il vascello che parte all’orizzonte, magari scorgerò sul ponte il bagliore di un nastro dorato, e subito discosterò lo sguardo.

Sappiamo entrambi, caro lettore lontano, che se c’è una cosa che non abbandonerò mai, è la fiducia di vederla arrivare ancora una volta.

Bianca Bellová, Praha, 01.4.2020

#1 Racconto inedito di Bianca Bellová

#1 Racconto inedito di Bianca Bellová

L’amore supera tutto

(Trad. dal ceco di Laura Angeloni, letto e interpretato da Elisa Galvagno)

L’isola si era difesa a lungo dall’epidemia di peste che imperversava sulla terraferma.

Non c’era ragione di dubitare di quanto insidioso fosse il contagio. Dai racconti, tutti sapevano quanto fosse spietata la pestilenza. Dalle tante chiese della terraferma, attraverso lo stretto, giungeva incessante il rintocco delle campane a morto. Il vento trasportava fin lì la melodia del Dies Irae.

Dies irae, dies illa

solvet saeclum in favilla,

teste David cum Sybilla.

Le guardie che vigilavano sul rispetto della quarantena sparavano dal molo sfere di fuoco, ignis volatilis, a tutte le navi che tentavano di avvicinarsi e attraccare. Una delle navi fu colpita e affondata; le guardie impiegarono poi vari giorni ad allontanare dalla riva i marinai affogati. Avevano il corpo pieno di tatuaggi di galline e maiali, perché erano convinti che Dio, in caso di affogamento, vedendo quelle bestie che non sanno nuotare, nella sua grazia li avrebbe presiin palmo di manoe avrebbe soffiato su di lorodepositandoli sulla riva. Altri si erano tatuati un’ancora, perché trattenesse il marinaio caduto in mare nei pressi dell’imbarcazione. La rosa dei venti doveva invece servire a riportare in salvo nelle loro case i marinai smarriti. Adesso i loro corpi gonfi erano in balia della corrente, e i pesci e gli uccelli predatori li prendevano a morsi.

Leggi e ascolta il racconto

Grazie al massimo dispiegamento di forze, l’isolaperdurava risolutamente nella sua splendid isolation. Gli uomini adulti si alternavano nel pattugliare le sponde frastagliate dell’isola, perché nemmeno un topo riuscisse a giungere fin lì dalla terraferma.

Quantus tremor est futurus,

quando judex est venturus,

cuncta stricte discussurus.

Berenice scosse il capo e i capelli riflessi sul vetro della finestra intercettarono un raggio di sole pomeridiano. Le prudeva la testa, pregò tutti i santi del paradiso di non aver preso i pidocchi. Poggiò la spazzola di avorio sul grembo e si premette le mani sulla pancia. Chiuse gli occhi sognante.

“Che fai, guardi le mosche che volano? Se pensi ancora a quel cascamorto…” la mamma fece un respiro profondo e si mise la mano destra sul petto. Sospirò.

“Stia tranquilla, mamma. Penso alle ore di latino che ho perso.”

La mamma sospirò ancora. “Eh già, anche questo. Vedrai che quando le piaghe d’Egitto saranno passate tornerà tutto alla normalità, bambina mia. Devi recitare spesso il breviario e mantenere intatta la tua fede, come noi tutti.”

“Sì, mamma.”

“Sei una figlia ubbidiente e devota, grazie a Dio. Ma non devi perdere tutto quel tempo davanti allo specchio.”

“Sì, mamma.”

“Fra poco cominciano i vespri. Preparati.”

“Sì, mamma.”

Bereniceavvistò sulla superficie dello stretto una vela biancorossa, che le strappò un gemito involontario dai polmoni. Ma era stato solo un sussulto della retina, un’illusione ottica generata nella sua mente dall’inquieta attesa.

Tuba mirum spargens sonum

per sepulchra regionum,

coget omnes ante thronum.

Berenice sentì la madre in cucina che discuteva col garzone, l’aveva mandato a fare provviste nei villaggi più lontani, visto che gli insediamenti più vicini erano già stati svuotati. Da quando il flusso di merci provenienti via nave dalla terraferma si era arrestato, sull’isola erano iniziati tempi magri. Era un’isola prevalentemente rocciosa, su cui crescevano solo more e mele selvatiche. Per il resto non c’era altro, a parte i minuscoli pesciolini argentei e la carne delle capre che scorrazzavano tra le rocce. Berenice si alzò e lanciò uno sguardo in cucina. Vide sua madre che in silenzio prendeva a pugni la spalla del garzone, che aveva portato solo tre uova di tartaruga e una testa di capra. Il garzone stava lì a testa bassa e si lasciava percuotere dalla donna, una spanna più bassa di lui.

“Mamma.”

La madre si girò e fece un sospiro. “Dovremo tirare la cinghia, bambina mia.”

“Sì, mamma.”

“Il Signore ci proteggerà, come sempre.”

A Berenice non importava. Si era ormai abituata alla fame. Ogni volta che recitava il rosario chiudeva gli occhi e senza il minimo sforzotornava a sentire sulla sua pancia le mani ardenti dell’innamorato. Poi dalla terraferma risuonò ancora il rintocco delle campane a morto. Succedeva tanto spesso ormai che nessuno ci badava più, era normale quanto l’urlo dei gabbiani. Era parte del ritmo quotidiano, come i pescatori che all’alba uscivano in mare, o la porta della città che si chiudeva all’ora dell’Angelus. 

Mors stupebit et natura,

cum resurget creatura,

judicanti responsura.

Durante le preghiere Berenice chiedeva solo e soltanto di rivedere il suo amato, e che il buon Dio lo mantenesse in salute. Ora chiudeva spesso la finestra, perché varie volte al giorno passava lì sotto una schiera sempre più folta di flagellanti, che con le tonache bianche intrise di sangue fresco, invocavano l’espiazione davanti al Giudizio Universale. Erano convinti che chi avesse resistito a trentatré giorni di flagellazione, sarebbe stato redento da tutti i peccati. Berenice non sopportava quei penitenti urlanti e puzzolenti.

Oro supplex et acclinis,

cor contritum quasi cinis,

gere curam mei finis.

Due settimane dopo, Berenice aveva appena finito la sua scorta di sapone di bile, le campane dall’altra parte dello stretto smisero di rintoccare a morto.Calò un insolito silenzio. Berenice tirò un sospiro di sollievo, come se qualcuno le avesse tolto di dosso una pietra tombale. 

Huic ergo parce, Deus.

Pie Jesu Domine,

dona eis requiem! 

Poi in una caletta appartata approdò una barca. Un messaggero recapitò una lettera che iniziava così:

“Mia amata Berenice, luce dei miei occhi, ho sete di te…”

Una settimana dopo sull’isola non era rimasto nessuno a seppellire i morti.

Bianca Bellová, Praha, 21.3.2020

Manuela Barban – Ambasciatrice Lettrice Miraggi legge GRAND HOTEL – ROMANZO SOPRA LE NUVOLE di Jaroslav Rudiš

Manuela Barban – Ambasciatrice Lettrice Miraggi legge GRAND HOTEL – ROMANZO SOPRA LE NUVOLE di Jaroslav Rudiš

Fleischman, nato il 21 settembre 1973, vive e lavora come tuttofare nell’hotel sulla collina. È un uomo solitario che ha subito diversi traumi e per questo è seguito da una psicologa, inoltre è pieno di manie e con una passione maniacale per la meteorologia. Fleischman racconta la sua storia perché glielo ha chiesto la dottoressa. Per 217 pagine il lettore diventa una specie di amico invisibile di Fleischman con cui lui condivide i pensieri e la sua visione della realtà e racconta la sua storia o meglio, le diverse versioni della sua storia. Di fianco a lui si muovono personaggi memorabili come Jégr, il proprietario dell’hotel o Franz un anziano ospite che coinvolge Fleischman nella sua missione e Ciuffo, un vecchio compagno di scuola di Fleischman. Ci sono poi Zuzanna che lavora in hotel e Ilja la ragazza di Ciuffo con cui Fleischman ha un rapporto complicato.
La storia è contemporaneamente avvincente e piena di nostalgia ed è narrata con ritmo.

Quale momento della storia, se c’è, hai fatto tuo? C’è qualcosa in cui ti sei riconosciuta?
Il “click” è scattato a pagina 16: […] il Torino vince contro il Manchester United con lo sbalorditivo punteggio di 4:0. Ecco, ho pensato, in questa storia ci sarà una forte componente epica.

Se fosse un farmaco questo romanzo cosa sarebbe? E pensando al suo bugiardino potresti indicarne la posologia?
Immunostimolante, da prendere in un’unica soluzione.

D’ora in poi vivrai il meteo in modo diverso? Guarderai di più il cielo ed i venti?
Il meteo è una cosa fatta di numeri, che non amo e di cui non riesco a vedere la poeticità. Continuerò a non guardarlo e a farmi sorprendere la mattina da quello che vedo dalla finestra.

Descrivi questa storia con 3 aggettivi?
Autistica, nostalgica, ventosa.

Tre librerie che sono il tuo riferimento per gli acquisti e che consigli?
Le mie tre librerie sono: Pantaleon, Trebisonda e la Gang del pensiero.

Intervista a Alessandro De Vito su «Lidové Noviny», giovedì 2 aprile 2020

Intervista a Alessandro De Vito su «Lidové Noviny», giovedì 2 aprile 2020

Ci vorrebbe un nuovo piano Marshall, dice l’editore Alessandro De Vito

Alessandro De Vito (1971) è ceco per parte di madre, ma vive e lavora in Italia. Dirige la casa editrice Miraggi, dove tra le altre pubblica traduzioni di scrittori e scrittrici cechi, per esempio Hrabal o Fuks, Bellová o Pilátová. Nonostante la pandemia abbia fermato la sua impresa, ritiene che il libro sopravvivrà.

LN – Qualche giorno fa avete pubblicato La perlina sul fondo di Hrabal. Oggi l’Italia legge, compra libri?

ADV – Miraggi, la nostra casa editrice, festeggia quest’anno 10 anni di vita, e il numero dei lettori è in crisi costante da prima che cominciassimo il nostro lavoro. Non sono più i tempi degli anni 80, e il libro, culturalmente, ha perso molta della sua centralità rispetto ad altre forme di formazione e intrattenimento, ma mantiene la sua importanza. Gli italiani leggono meno di altri paesi, è un fatto. Il mio punto di vista è quello di un piccolo editore, e in questo senso la situazione è confortante: i „lettori forti“, anche se non numerosi come percentuale, leggono molto e soprattutto cercano e scelgono anche le produzioni minori, le case editrici indipendenti.

Purtroppo il libro di Hrabal, molto importante per noi e per far conoscere di più tutta la collana ceca che pubblichiamo, arriva in un momento difficile, in cui è tutto fermo per la pandemia. Sarà un ottimo punto per ripartire, per fortuna è un libro senza tempo, un grande classico che gli italiani non hanno ancora mai letto.

LN – Qual è stata la tiratura de La perlina sul fondo? Hrabal è ancora popolare in Italia?

ADV – Di solito usciamo con una tiuratura di 2000 copie. Per Hrabal siamo saliti a 3000, è pur vero che Hrabal ha avuto il suo maggior successo una ventina di anni fa, ma un autore di quella grandezza ha l’attenzione dei lettori e dei recensori garantita anche oggi. Il supplemento letterario Tuttolibri del quotidiano nazionale La Stampa di Torino gli ha dedicato di recente 4 intere pagine! Hrabal è forse il più grande scrittore ceco del Novecento, e poter offrire al lettore italiano la prima traduzione del suo primo libro è stato un sogno per noi.

LN – Quali saranno le conseguenze della pandemia sul mercato librario italiano? Quali saranno i maggiori problemi per gli editori italiani?

ADV – La pandemia ha fermato tutta la filiera del libro, dal magazzino dell’editore alle mani del lettore. Io credo che adesso sia difficile vedere ancora tutti i problemi, dipenderà molto da quanto durerà questa situazione. Al momento ci sono libri fermi, librerie e canali on line chiusi, alcuni libri previsti nei prossimi mesi usciranno in ritardo per fare spazio a quelli già pronti ora. Sarà però molto diverso ripartire dopo 2-3 mesi, o se il periodo sarà più lungo. E dipenderà anche da come ne uscirà tutta la società, potremmo vedere una crisi economica molto forte per cui molti potrebbero avere altre e più grandi preoccupazioni che non comprare dei libri.

LN – La situazione attuale potrebbe portare anche qualcosa di positivo?

ADV – Credo che cambieranno molte cose. Il mercato del libro ha molti difetti, la distribuzione, l’eccesso di produzione, l’eccessiva rapidità di produzione e la velocità con cui i libri muoiono. Come piccolo editore siamo meno soggetti a questi meccanismi, noi lavoriamo sempre sul catalogo e molto meno sulla novità: spesso i nostri libri non vendono molto in un breve periodo come i bestseller, ma sul lungo periodo continuano la loro corsa per un tempo più lungo. In dieci anni non abbiamo ancora messo nessun libro fuori catalogo. È difficile dire ora come cambierà, credo che molte case editrici non si risolleveranno, e che le più grandi dovranno ristrutturarsi radicalmente e ripensare la loro attività. Almeno lo spero, che vengano anche cambiamenti positivi.

LN – Gli italiani leggono gli e-book? Ascoltano audiolibri? E questi potrebbero andare a colmare la perdita di libri cartacei che si prospetta?

ADV – Da anni gli ebook hanno una quota quasi costante nelle vendite, e non aumenta di molto. Negli ultimi anni anche gli audiolibri hanno riscosso un certo successo, ma per ora è un settore limitato. Sono convinto che entrambi aumenteranno le vendite, anche se una delle comprensibili reazioni in questa situazione è un’angoscia che molti descrivono come una difficoltà a concentrarsi e anche a leggere. Se la situazione dovesse durare sicuramente il settore venderà di più, e in generale c’è una spinta all’acquisto on line: anche la spesa ordinaria, e tutti i servizi che molti utilizzavano ancora in modo tradizionale. Non credo che arriverà mai a rimpiazzare del tutto le vendite cartacee, che in ogni caso riprenderanno. Per un piccolo editore come noi, che in proporzione spende molto per la stampa, sarebbe una buona cosa: a me piacciono molto i libri di carta, ma se vendessimo solo ebook, e molti di più, avremmo molte meno preoccupazioni. Non credo che accadrà: il libro è una tecnologia antica, e resta ancora oggi molto efficace, durerà a lungo ancora.

LN – Il governo italiano prevede degli aiuti per l’editoria?

ADV – Direi di no, in generale non esiste nulla del genere come i contributi del Ministero della Cultura ceco, che oltre a finanziare le traduzioni dei libri cechi all’estero sostiene la produzione interna con contributi per i vostri libri. Abbiamo dei contributi, più spesso regionali, per la partecipazione alle fiere come il Salone del libro di Torino, ma non mi viene in mente altro. Non esiste neppure un piano di acquisto generale dei libri da parte delle biblioteche pubbliche, come in altri paesi. Ma in generale l’Italia investe molto poco nella scuola e nella cultura, compreso l’immenso patrimonio artistico e monumentale che abbiamo ereditato.

LN – E sono previsti degli aiuti per l’attuale eccezionale situazione?

ADV – Per questa situazione di emergenza non ci sono a oggi ancora provvedimenti specifici: le case editrici sono ferme, le librerie sono ferme, le spese fisse vanno avanti (per esempio gli affitti) e ci sono solo provvedimenti molto limitati per i lavoratori, ma valgono per i dipendenti, quindi per le realtà più grandi. Sarà presto a disposizione un contributo di 600€ per i titolari di P.Iva, quindi anche per tutti i lavoratori autonomi che lavorano nella filiera senza un contratto da dipendente, come noi tutti. Non può bastare.

LN – Qual è l’umore nella società italiana?

ADV – Come sempre ci sono opinioni diverse, tra speranza, depressione e catastrofismo. La dinamica dei social network, quando sei costretto a casa, amplifica i suoi problemi: si diffondono fake news, false speranze, complottismo, ma abbiamo per la prima volta una rete che ci unisce, può anche informare correttamente e fornire aiuto, dare grandi e piccole indicazioni utili, per esempio sui negozi aperti, restare in contatto con le persone sole. Alla preoccupazione per il contagio si somma sempre di più la preoccupazione economica, ed è normale che si patisca anche psicologicamente il fatto di dover stare in casa e di non sapere come evolverà la pandemia. Credo che man mano la situazione sarà la stessa in tutta Europa, e in tutto il pianeta. Una volta passata l’emergenza, credo che dovrà esserci una risposta economica forte da parte di ogni singolo stato. RE non solo: anche da parte dell’Unione Europea o della Banca Mondiale. Una sorta di piano Marshall o un New Deal alla Roosevelt.

LN – La sua casa editrice pubblica regolarmente autori cechi, in ordine sono uscitiBalabán, Fuks, Rudiš, Bellová, Boučková, Pilátová. Cos’è che i lettori e i recensori italiani apprezzano in quei libri, che ccosa piace della letteratura ceca?

ADV – Al momento, anche se piccoli, siamo gli unici ad avere una collana interamente dedicata alla letteratura ceca, in passato il legame culturale è stato più stretto, grazie a persone come Angelo Maria Ripellino e per l’interesse per la dissidenza dopo la fine della Primavera di Praga. Io credo che i lettori accolgano bene il nostro progetto: da un lato riproponiamo autori già pubblicati in italiano molti anni fa, e ingiustamente dimenticati (come Ladislav Fuks), o pubblichiamo opere non ancora tradotte di grandi classici (come Hrabal). Forse non è molto, ma è un filo che non dovrebbe essere interrotto.

LN – Perché?

ADV – I due paesi sono molto vicini, moltissimi italiani vanno a Praga da turisti e non sanno nulla della cultura che vanno a visitare. Allo stesso tempo apprezzano lo sguardo dei nuovi autori e autrici. La letteratura ceca ha un modo molto personale di esprimere il suo punto di vista sul mondo, a volte più leggero e divertente, a volte più grottesco e tetro, ma sempre profondo. A lungo abbiamo guardato il mondo solo attraverso le vicende italiane, o attraverso il racconto degli americani. Cerchiamo di aprire un passaggio a Est. Molti ci dicono essere una strada giusta: verso il centro della comune storia europea. 

LN – Ha personalmente tradotto alcuni dei libri che ha pubblicato. Lei è stato prima traduttore o editore?

ADV – Ho cominciato come editore, e da quasi vent’anni svolgo i vari mestieri intorno al libro. Come traduttore ho cominciato da poco, da 3-4 anni. E seguendo un percorso particolare e non canonico. Non sono un boemista e non ho mai studiato ceco o traduzione all’università. Sono però di origine ceca, mia madre è di Ostrava, e ho sempre parlato la lingua, anche se in casa e alla buona. Poi mi sono messo a studiarla, e avendo esperienza del lavoro con i libri ho messo insieme le cose. Ho studiato latino, greco antico e francese, e sapere il ceco mi ha sempre aiutato con tutte le lingue. Ora le altre lingue e la loro traduzione mi stanno aiutando con il ceco. 

LN – Per lei il ceco è una lingua difficile? Più difficile dell’italiano?

ADV – Purtroppo non ho mai vissuto in Rep. Ceca, salvo le vacanze di ogni anno dai nonni nello Slovácko e a Slezská Ostrava, per cui ho una certa difficoltà a parlare e a scrivere in ceco. A leggere però lo capisco molto bene, in quel caso c’è tempo di studiare tutto del testo e conta molto la conoscenza della lingua di destinazione. Credo che per un italiano, e non è il mio caso, ci sia una difficoltà insormontabile, la pronuncia di alcuni suoni come la ř, e il fatto che sia una lingua flessiva. Per il resto la struttura del ceco e dell’italiano sono simili. Almeno rispetto all’arabo, al cinese o all’ungherese.

Radim Kopáč

Patrizio Zurru – Ambasciatore Lettore Miraggi legge UNO DI NOI di Daniele Zito

Patrizio Zurru – Ambasciatore Lettore Miraggi legge UNO DI NOI di Daniele Zito

Dieci righe non basterebbero a descrivere Uno di noi, il nuovo romanzo di Daniele Zito, a meno che non si cerchi di comprimere il petto e si miri subito all’obiettivo, la straordinaria capacità linguistica dell’autore, le possibilità che riscopre con l’uso di strutture evidentemente “Fuori uso”, fuori dalla norma, che poco o niente spazio troverebbero oggi sul mercato.

L’uso della tragedia greca come arma di tensione, come struttura che avvicina e ti tiene sotto minaccia per tutta la durata della lettura, e tu non puoi, ma già immediatamente non vuoi sottrarti a quest’arma insolita che ti tiene attento agli sviluppi.

La trama è presto detta, come scritto sulla quarta e sul sito dell’editore: Quattro amici di vecchia data, alla fine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Lo fanno così, senza una ragiona precisa, spinti dall’euforia del momento. Purtroppo, il loro gesto si trasformerà in tragedia.
Il drammatico evento lascia su tutti i personaggi coinvolti tracce indelebili, Uno di noi ne è il resoconto, senza escludere nessuno, né le vittime, né i carnefici.

Brutto scoprire che ognuno di noi è Uno di noi.

Sappiamo bene che ogni medicinale ha una posologia, questo come   dovrebbe essere assunto secondo te?   Posologia: Una lettura al giorno, due capitoli, da ripetersi fino alla guarigione.

Ogni nostro lettore ambasciatore ha una libreria di riferimento la tua qual’è nella città in cui risiedi? O ce ne sono più di una?   Le mie tre preferite a Cagliari: UbiK via Sonnino, Bastione Piazza Costituzione e Mieleamaro via Manno

Ci racconti un aneddoto che ti lega all’autore?   Per il compleanno la moglie mi ha chiesto un video di auguri, e io l’ho registrato seduto al cesso. Credo abbia gradito lo sforzo.

Tre aggettivi per descrivere UNO DI NOI?  Necessario, Forte, Sconvolgente. 

Intervista With Love a Domenico Mungo a cura di Natalia Ceravolo

Intervista With Love a Domenico Mungo a cura di Natalia Ceravolo

> 1) Domenico, raccontaci come e dove è nato il tuo Whit love?

Kurt Cobain era Cristo.
Kurt fece una cosa che solo Cristo avrebbe potuto compiere. Resuscitare un morto. Un morto che si chiamava rock’n’roll. Non solo il punk, non solo la musica alternativa, ma tutto il rock era morto nel 1994: Rock is dead!
E Kurt con quel colpo di fucile a spappolargli il cranio sembrò scuotere il cadavere del rock. E a lui lasciare il passo. Perdendo l’anima. Precipitata nell’inferno.

Missione di questo libro è prelevare l’anima di Kurt Cobain da quell’inferno e spedirla dove merita. Nel nostro amore. Trascinarlo via da quell’inferno rosso e zolfo, col cranio sfondato e il cartello “Suicida” posto al collo nel museo delle cere dove lo hanno messo fra Jimi Hendrix e Jim Morrison, nel “club dei 27. Ma Kurt non era come loro.
No, Kurt morirà più come Cesare Pavese o come Céline. Con un colpo di fucile che fa esplodere il cinema che ha nel cervello. Come uno scrittore o un poeta, non come una rockstar. O forse sì. O forse, ancora, come un grande regista stanco di continuare a girare lo stesso film con un copione già scritto.
Ma With Love è anche la formula attraverso la quale ho sempre cercato di vivere la mia esistenza. Ho sempre vissuto seguendo il sentimento, la passione, quello in cui credo e credevo e riversandovi sopra tutto il mio amore. E naturalmente questa prerogativa ad affrontare la vita in maniera impulsiva, passionale, con il cuore e raramente con il cervello ha avuto i suoi effetti collaterali talvolta fatali per me.
With Love è questo libro dedicato agli anni Ottanta e Novanta, alla Torino tossica, creativa, pregna di vita pulsante, alternativa a se stessa, figlia della rabbia operaia e alla ricerca della propria dignità e della propria identità delle esperienze antagoniste di quella sequenza sgamba di lustri che cambiarono il mondo, la politica, la musica, l’arte, il pensiero, Torino stessa e la mia vita. I gruppi, le case occupate, gli scontri, le occupazioni. I dischi, i libri, le avventurose prime esperienze musicali in prima persona, l’epopea effimera ma significativa della mia band, gli Unconditional poi Malasangre, condivisa con i padri fondatori Nino Azzarà e Marcello Marcelli che ancora annovero tra i miei amici più cari.
Le case occupate ovvero Le isole felici in un mare di niente e noia. Quelle corazzate di stoffa nera che attraversavano i marosi di asfalto e pregiudizio per creare avarie nel sistema e sopravvivere a esso.
With Love è la dichiarazione d’amore a una città e alla sua gente che ho amato, odiato, ripudiato. Una città che non mi ha mai accettato del tutto, che mi ha spesso deriso e sputato via e che io ho voluto invece sempre vivere fino in fondo.
With Love è uno sfondo sul quale si dipana una colonna sonora digrignante, romantica, caotica, rumorosa, poetica come non mai da allora in avanti. Il brulicare di pensieri e azione della mia vita si è innestata sugli accordi dei Nirvana, sicuramente, ed è per questo che ne ho fatto il tema fondante di questo romanzo/antiromanzo, ma anche di tutti gli altri libri di sangue che suonavano, urlavano, pregavano e creavano linfa allora e nei secoli a perpetua memoria.
With Love è una confessione, mia ma anche di Kurt. Kurt che per molti è un esempio da rinnegare, per altri un’icona da santificare. Per me il miglior cantante chitarrista che avrei mai potuto arruolare in una band di cover dei Pixies.
Questo non è l’ennesimo libro sui Nirvana. In senso stretto non è nemmeno una biografia di Kurt Cobain. È un tentativo falso di trovare la mia verità. È un’aureola di pattume che orbita intorno alla testa sfondata di Kurt. E attorno alla mia vita. È un mobilificio dove costruire finalmente la bara a forma di cuore in cui riporrò tutti i miei demoni. E i suoi. Per sempre.

> 2) A che lettore ti rivolgi?
All’universo mondo che desidera vivere la sua esperienza terrena with love…
> 3) Se fosse un farmaco sarebbe…
Imodium
> 4) Descrivi il tuo libro con tre aggettivi tre?
Maleodorante e sensuale come lo spirito di un adolescente.

L’arte di raccontarsi in “Quando i padri camminavano nel vuoto” a cura di Eleni Molos su L’Indice Dei Libri

L’arte di raccontarsi in “Quando i padri camminavano nel vuoto” a cura di Eleni Molos su L’Indice Dei Libri

 “Si può guardare dentro di sé in due modi, uno alla Montaigne, che è quello di guardare dentro con lo sguardo da fuori. L’altro, di non avere più nessuno sguardo esterno per guardarsi, e tu diventi il tuo buco nero, che ti attira inesorabilmente e diventa un abisso senza fine”. Se la ragione di tanta cattiva produzione letteraria è che gli autori si illudono che fare della terapia psicanalitica basti per scrivere un romanzo autobiografico, nel libro di Curti, Quando i padri camminavano nel vuoto – segnalato nel 2016 dal Comitato di lettura del Premio Calvino – troviamo esattamente il processo contrario: l’autore sa fare della bella letteratura, e questo affilato strumento gli serve, inevitabilmente, per indagare nei ricordi, riscrivendo la propria infanzia e risolvendo nella tessitura del romanzo tante ossessioni che lo perseguitavano da bambino. Scopriamo così che la sua più grande paura, quella di non saper distinguere i vivi dai morti, si è trasformata nella sua dote più grande di scrittore: saper riportare in vita tutti i suoi morti, in particolare suo padre e quei padri spirituali che con lui ha condiviso. Nelle righe del romanzo, la vita si decanta, si filtra attraverso una ammemorazione sentimentale, e ne rimane un distillato liquoroso e denso. Le più belle pagine di Curti richiamano alla mente autori come Romain Gary o Manuel Vilas, che hanno raccontato i propri genitori dosando tenerezza, ironia e disincanto. Lo scrittore descrive in lunghe pagine l’ostinazione del genitore, insegnante e intellettuale, a scrivere in latino, a trovare per tutto una verbalizzazione, guidato da una fede incrollabile nel potere della parola: scegliere le parole per addomesticare la realtà è l’unica forma possibile di vita, l’unico espediente per procrastinare la morte. 

È un lascito gravoso da raccogliere, per un figlio, e il giovane Curti lo sa bene quando decide di studiare fisica, invece di seguire il richiamo forte della poesia. Tuttavia certe vocazioni non possono essere tradite, e anche i problemi matematici possono diventare narrazione e viceversa. D’altro canto, da uno dei suoi maestri d’infanzia ha appreso un altro stratagemma per depotenziare la morte: usare i numeri, invece dei nomi, per separare già in vita l’anima dalla sostanza corruttibile. Così un’altra ossessione del piccolo Piergianni, che fissa le lancette orarie dell’orologio per percepirne il moto, è diventata un’arma di Curti scrittore e matematico: saper fermare il flusso continuo della durata in attimi discreti, in appigli per non essere trascinati via. L’instabilità, infatti, è uno dei temi che più emergono: a partire dal titolo, l’autore ci descrive il difficile passaggio di epoca e di generazioni del secondo dopoguerra, in cui le certezze faticano ad affermarsi e gli adulti quanto i giovani annaspano alla ricerca di un’identità: tutto sembra ambivalente, passabile di più definizioni, tutto è cedevole e malsicuro per chi, come il padre dell’autore, fatica ad accettare etichette ideologiche. 

Quando i padri camminavano nel vuoto, allora, è anche un romanzo storico, in filigrana, e un profondo romanzo di formazione: non solo dell’autore bambino, bensì anche, parallelamente, di suo padre: entrambi si educano a restare orfani di padri spirituali, entrambi imparano a diventare genitori l’uno dell’altro, e di se stessi. Nelle prime pagine del romanzo, vedendo una foto sbiadita del padre, Curti ne riconosce “lo sguardo serioso dei predestinati alla speranza”. È questa, forse, l’eredità più preziosa che ha ricevuto. Luigi Pintor, ne La signora Kirchgessner, riporta la frase di un anonimo secondo cui “si può essere pessimisti riguardo ai tempi e alle circostanze, riguardo alle sorti di un paese o di una classe, ma non si può essere pessimisti riguardo all’uomo”. La predestinazione alla speranza è una condanna alla ricerca, e forse all’insoddisfazione, perché deve leggere dei segni che restano nascosti allo sguardo pigro e alle facili schematizzazioni. Tuttavia, è anche il dono della grazia, perché ha reso la sua scrittura acuta e capace di infinita indulgenza, ha dato spirito all’ironia e gli permette di trovare nel passato, nei morti e nei vivi, ricchezze inesauribili di senso. Da lettori, ciò sia anche un augurio per la prosecuzione del romanzo, che l’autore ci ha promesso e a cui sta già lavorando.

Intervista a Liliana Madeo e alle sue “Donne di mafia” a cura di Angela Vecchione

Intervista a Liliana Madeo e alle sue “Donne di mafia” a cura di Angela Vecchione

1 – Donne di Mafia Liliana è un’inchiesta giornalistica, molto rispettosa, che non hai voluto romanzare o colorare in alcun modo le vicende trattate. Hai delineato due tipi di donne nelle organizzazioni mafiose: quelle cresciute in famiglie criminali e quelle che ci sono capitate per aver scelto l’uomo sbagliato. Dalla tua indagine, più vittime o più carnefici?

Di avanzare quote, numeri, proprio non me la sento. La scena che mi sono trovata davanti quando mi sono messa a studiare il tema era – ed è – colma di ombre, contrapposizioni. Delle donne che hanno sollevato la testa e pronunciato le parole della denuncia si sa chi sono, il prezzo che hanno pagato per la loro scelta, il sostegno che è stato dato loro per tornare a vivere e a far vivere liberamente i propri figli. Non sono moltissime ma esistono, e il contributo che hanno dato per fare luce sui rapporti fra Stato e criminalità, boss e manovalanza spicciola, è sempre stato riconosciuto, citato. Preziose si sono rivelate anche le ambiguità, le incertezze, le paure fra cui si erano dibattute prima di riuscire a spezzare la regola del silenzio che vige in quel “mondo a parte”, esclusivo, maschile, violento, in cui si erano trovate e che è Cosa Nostra: un percorso, il loro, a noi utilissimo per capire o almeno intuire la gamma dei comportamenti e delle motivazioni interiori che muovono le “altre”, quante all’interno di quel circuito continuano a stare.

Ecco le first ladies. Non parlano. Defilate dietro le quinte, lasciano a lui ogni onore e responsabilità. Nessuno può dire di conoscerle. Nessuno è autorizzato a parlare con loro. Sanno che una delle qualità per cui sono state scelte come spose o compagne, sta nella loro capacità di tacere, non esibirsi, condurre una vita ritirata, non frequentare persone di altro ambiente. È lui, la sua immagine, quello che mai dimenticano. 

Le matriarche. Entrare nella famiglia mafiosa ha significato per loro rilievo sociale, soldi, sicurezza. Sanno tutto quello che il compagno fa e gli viene chiesto di fare. Ne condividono le traversie. Non giudicano e non ne parlano con nessuno. L’arresto o il confino in cui può incappare lo sposo o un figlio anima i loro giorni, le costringe a viaggiare, contattare avvocati e amici fedeli, diffondere messaggi, maneggiare fax e telefoni, gestire affari per miliardi. Può anche succedere che lo sposo o il figlio diventi un “pentito”. E allora non possono perdonarlo, non vogliono più neppure vederlo, magari indossano il nero che si addice al lutto delle vedove: quel “tradimento” è un’infamia, la loro vergogna.

2 – Parli di donne come Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina, molto attive nel sistema: ha maneggiato soldi, gestito traffici, trasmesso la cultura mafiosa ai propri figli. Come si concilia il senso di maternità e l’alto rischio di mortalità al quale sono esposti i figli cresciuti nel ventre dell’illecito? Si può essere madri affettuose e fredde assassine? 

Sì, l’amore materno e l’ombra della morte in agguato si conciliano benissimo nell’animo e nella vita di queste ladies. Ad Agata Barresi uccisero sei figli. Ogni volta lei scendeva in strada e sul cadavere del figlio di turno steso a terra urlava a perdifiato il suo dolore, senza mai dire una parola agli uomini dello Stato, senza dire neanche il suo nome. Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina, meglio di ogni altra sa che il mondo in cui è vissuta – come una star a fianco di un marito che dettava leggi, seminava esecuzioni capitali e accumulava prodigiose ricchezze – è un mondo in cui domina l’etica della violenza e della morte. Certo che ama i suoi figli. E proprio perché li ama, e sa che corrono rischi – perché i nemici, i rivali, gli avamposti di una nuova banda sono sempre in agguato, pronti a colpire i beni i più preziosi dell’avversario, i figli appunto – si è sempre tenuta ben stretta la rete della comunità mafiosa che a lei e alla famiglia garantisce una protezione continua. Ma niente è semplice in un territorio simile: l’amore materno può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Per amore dei figli, per non mettere a repentaglio la loro vita, molte donne – come abbiamo detto – restano fedeli al gioco della mafia. Però può succedere che un figlio venga ucciso e allora – sempre per amore – la disperazione fa uscire la madre dal gioco e la induce a gridare con voce tonante le sue accuse, cioè a “tradire”. Anche la vigilanza del clan non sempre si rivela sufficiente. Ci sono i figli che, nonostante ogni misura protettiva, vengono uccisi. I figli che, riconosciuti dallo Stato responsabili di gravi reati, finiscono in carcere. I figli che, un giorno, per le ragioni più diverse si discostano dalle persone fra cui sono cresciuti, dall’aria che hanno respirato, e girano le spalle all’ ”Onorata Società” . 

3 – Il tuo libro è uscito venticinque anni fa. Rispetto a tutti i movimenti come mee tooche danno voce a soprusi dei quali le donne sono costantemente vittime, il ruolo femminile nell’organizzazione criminale è mutato da allora? E tu, ne hai riportato traccia in questa nuova edizione?

La visione arcaica della donna siciliana – colei che esegue gli ordini del marito, ubbidiente e cieca, prototipo della donna di mafia – ha continuato a circolare fino agli anni Ottanta-Novanta negli atti processuali, nelle aule giudiziarie. Già da tempo persone e associazioni femminili autorevoli rintuzzavano questa “verità”. Ma furono l’arrivo sulla scena di donne di mafia con titoli di studio ed esperienze culturali o manageriali alle spalle, e l’occhio critico di una nuova generazione di inquirenti – fra cui anzitutto Falcone e Borsellino – a far cadere i vecchi parametri di giudizio, che oggi non vengono neanche ventilati. Le compagne o aspiranti compagne degli uomini di mafia non stanno più nella penombra. Parlano in pubblico. Esibiscono la loro bellezza e i loro talenti. Non fanno mistero delle competenze che hanno quanto all’uso dei mezzi di comunicazione più avanzati. Sono viaggiatrici instancabili. Si muovono come cinghie di trasmissione fra poli di denaro e di potere sparsi nel pianeta. Il loro potere e la loro complicità con gli uomini del sistema mafioso appaiono lontani anni luce da quelli di un tempo. In realtà – proprio come un tempo, anche se in maniera diversa – continuano ad essere funzionali al successo dei disegni, dei propositi, degli obbiettivi indicati dai capi delle cosche. Un nodo fondamentale della struttura mafiosa continua a esistere, neppure intaccato dai venti dell’apparenza. L’affiliazione – con il giuramento e il solenne rituale che sanciscono l’appartenenza di una persona per tutta la sua vita a Cosa Nostra – resta preclusa alle donne. La donna resta un soggetto inaffidabile, una creatura debole, con molti talenti ma capace di provare emozioni che possono mettere a rischio l’intero territorio su cui la mafia esercita la sua signoria. Il gradino che separa l’uomo dalla donna nell’esercizio del potere all’interno dell’Onorata Società esiste ancora, solido e ben difeso. Una preclusione che riguarda, da sempre, anche il soggetto gay. L’organizzazione è – e resta – rigorosamente monosessuale, maschilista.

4 – Tre aggettivi per descrivere la tua opera.

Tre aggettivi? Tre soltanto? 

Angela Vecchione intervista quel “Dio Web” di Matthias Martelli

Angela Vecchione intervista quel “Dio Web” di Matthias Martelli

  1. Siamo sempre connessi Matthias, ma sempre meno presenti nella vita di tutti i giorni. È questa la molla da cui prende vita Nel nome del Dio web?

La molla è stata questa. Ma un accadimento della mia vita è stato decisivo per farmi concepire questo lavoro. Una volta mi si è rotto l’iPhone mentre scendevo le scale. Ero in ritardo, dovevo avvisare delle persone, in un attimo mi sono ritrovato solo. Sprofondo nella crisi, sia nell’immediato, sia nei giorni successivi durante i quali ho usato un vecchio Nokia senza connessione. Quel vecchio telefono assolveva alla sua funzione primaria: telefonare e mandare messaggi. Ma, nonostante ciò, mi teneva fuori dal mondo. Mi sono sentito in una specie di isolamento. Questa cosa mi ha fatto rendere conto di quante volte io guardassi prima il telefono. Di quanto io ne fossi in qualche modo dipendente. Con quel Nokia, ero connesso con la realtà in maniera diversa. Ho recuperato una parte di me precedente a questa connessione totale e globale. Mi ricordo, da ragazzino, della tecnologia come qualcosa che mi attirava. Non c’era la connessione, c’erano i messaggi, le telefonate. La tecnologia che ad un certo punto potevi spegnere. Così ho riconquistato alcuni spazi.

Mi è capitato in quei giorni di vedere un filmato fatto da un mio amico quando avevamo quindici anni. Io e i miei amici eravamo in un parchetto e ci comportavamo come ci si comportava in un periodo storico che non ti pone nella costante minaccia di poter essere ripresi. Rivedendo il filmato mi sono accorto che un mio amico guardava nel vuoto. In quella ripresa datata ho notato che se ne stava seduto tranquillo a non muovere un dito. Quel suo non fare nulla mi è sembrato qualcosa di semplice e di straordinario insieme: un ragazzo di quindici anni che guarda in un punto imprecisato, pensa a qualcosa per conto suo, senza essere impegnato a comunicare a distanza con nessuno. Senza sentire l’esigenza di utilizzare quel tempo morto per chattare/postare/cercare/vedere. Era con noi amici, pure se in quel momento non stava parlando. I telefoni quando eravamo piccoli servivano per incontraci: noi volevamo stare insieme. Guardarci in faccia, ridere insieme, annoiarci e pensare ai fatti nostri. Ma senza la solitudine che si avverte oggi.

  1. Come ti è venuta l’idea del prelato (Don iPhone) che tramite il web predica la fede (a modo suo), elargendo consigli con il telefono?

Ho associato in modo naturale le nuove tecnologie alla religione, il sacro mi è sembrato il veicolo più immediato per esprimere questa nuova realtà. La preghiera con idoli coevi è diventata simbolica di un mondo nel quale non poteva che esercitarsi una parodia della nostra contemporaneità. L’approccio satirico, diciamo, mi è venuto spontaneo.

È così pervasiva questa dimensione tecnologica, che al pari di qualsiasi fede religiosa accettata tout court, entra nelle nostre vite senza lasciarci il tempo di porci troppe domande. Negli ultimi anni siamo arrivati al paradosso che, pur condannando questa nuova religione profana, noi la accettiamo supinamente. Anche la “vecchia guardia”, le generazioni cresciute senza questa costante connessione, molto spesso non riescono a ricordare come si stava quando si viveva senza lo strumento che ha stravolto le nostre vite, regalandoci tanto. Ma allo stesso tempo togliendoci anche tanto: lo smartphone.

  1. Da dove nasce, dove è giunto fino ad ora e dove vuole arrivare Matthias Martelli?

La nascita si rintraccia in un’idea popolare e giullaresca di esibizione artistica, che per me si traduceva in monologo satirico portato nelle piazze. Quello che mi ha fatto recitare qualsiasi cosa prima di approdare a teatro. Il mio obiettivo era quello di generare domande e riflessioni attraverso la risata, senza offrire necessariamente soluzioni. Grazie al lavoro che faccio ho la fortuna di avere un contatto diretto con diverse generazioni, dai ventenni, ai sessantenni. Mi sono reso conto che i ragazzi di venti anni, i nativi digitali, abbiano una difficoltà sempre maggiore di affrontare i rapporti vis a vis. Li maneggiano senza empatia, senza coraggio. I rapporti finiscono con un messaggio, le persone si cancellano dalle chat, i contatti si eliminano. Con il mio, Nel nome del Dio Web, molti spettatori dopo essere stati a teatro mi scrivono, dandomi anche un feedback sulle cose che hanno cambiato grazie ai paradossi portati in scena nello spettacolo che, al netto delle risate, offre loro un po’ uno specchio nel quale guardarsi.

La risata libera energie, ti rende disponibile a recepire dei messaggi che vanno al di là del momento di divertimento e mirano a creare degli squarci per vedere altre cose. D’altronde l’arte serve anche a questo, no? A fermarci.

  1. Tre aggettivi tre per descrivere la tua opera.

Ironico, corrosivo, sorprendente.